domenica 26 febbraio 2006

La catena delle sette cose


L’amica Sibilla mi ha tirato questa coltellata a tradimento della catena di Sant’Antonio. Pensavo che mi sarei annoiato a rispondere ai quesiti, ma almeno in qualche caso ciò non è successo.

1. Cose che vorrei fare prima di morire. Vorrei fare un ballo senza pestare troppo i piedi alla mia partner.

2. Cose che non so fare.
Nuotare.
Ballare.
Portare l’auto.
Fumare.
Rispondere in modo brillante a domande non brillantissime.

3. Cose che non mi piacciono nella persona che amo.
Passo la palla.

4. Cose che dico spesso.
Oso o oserei dire, o anche starei o staremmo per dire.
Gesù Cristo (detto o tentato di dire nel tono di Robert Shaw, il cacciatore di pescicani finito divorato nello Squalo di Spielberg).
Il prigioniero di Zenda. Lo dico quando mi sento incastrato in una cupa situazione senza via di uscita (tratto dal conosciuto film, in effetti i film sull’argomento sono almeno quattro o cinque, io ne ricordo uno con Stewart Granger e uno con Peter Sellers; è possibile che io abbia visto pure quello con Douglas Fairbanks junior, ma non ne sono sicuro).
Vuolsi così colà dove si puote, specificando sempre che l’ha detto Sandro Mazzola dopo una partita che l’Inter aveva dominato sul campo ma perso nel risultato.
Chi comanda qui, chi è il capo assoluto tra noi? Rivolto ai miei nipoti, con loro che alzano la mano e rispondono “Io”.
Preso dalla fame. Detto di persona che stringe una relazione sentimentale con un partner palesemente al di sotto delle sue logiche aspettative.


5. Libri che mi hanno colpito.
Guerra e pace. Mi avevano sempre parlato con angoscia di Tolstoj, con i lettori più valorosi che avevano ammesso candidi di aver ammainato bandiera bianca al secondo o terzo libro del romanzo. Quando lo lessi lo trovai affascinante e per niente noioso. Splendida la teoria che le vittorie di Napoleone fossero dovute a fattori fortuiti o comunque estranei alla sua capacità di condottiero.
Texas, di James Michener. Probabilmente il più ponderoso romanzo in assoluto che posseggo. Pur essendo scritto in caratteri piccolissimi e in righe fitte supera le 1100 pagine, che sarebbero quasi il doppio se il libro fosse stampato in maniera estensiva. La saga del Texas dagli indiani ai tempi moderni, ricca di atti eroici e avventure in un mondo che sembra essere tuo.
L’invasione degli ultracorpi. Fulminante romanzo di fantascienza. Gli alieni invadono la terra sostituendosi agli umani. Ricordo che lo lessi tutto d’un fiato sul letto a testa in giù con il libro sul pavimento. Il titolo che cito appartiene al film di Don Siegel. Quello del romanzo era molto meno efficace.
L’orologio di Pandora. Breve Introduzione per parlare di questo libro. Ho letto molti manuali di scrittura creativa e mi sono dedicato alla narrativa per parecchi anni. In linea teorica (solo teorica) so tutto di come si scrive un romanzo. Quando ne leggo uno noto subito i pregi e i difetti, le debolezze e le ingenuità, anche se il romanzo è scritto da un mostro della letteratura. Quando lessi questo poco ambizioso thriller (c’è un’epidemia letale a bordo di un aereo) mi sorprendevo a non trovare errori. Era tutto scritto come si doveva. Rimasi affascinato come quando si vede un’elegante costruzione, con i dettagli ben rifiniti, un castello di carta o di sabbia tirato su da un artigiano valente e coscienzioso. Detto ciò, non credo che si tratti di un romanzo capolavoro.
La vasca di Archimede di Piero Angela, letto almeno dieci volte da cima a fondo. A quell’epoca ero un fan di Angela e gli scrissi pure qualche lettera alla Rai.

6. Film che amo e rivedrei in continuazione.
Il padrino. Niente da dire. Un film perfetto se mai ne fu girato uno. Ha circa trentacinque anni e sembra girato ieri. L’ho visto innumerevoli volte e innumerevoli volte ho letto il romanzo di Mario Puzo da cui è stato tratto. Brando unico. In genere quando si parla di un film che debba sintetizzare il cinema in tutto quello che c’è di buono e di cattivo di quest’arte si cita Via col vento. Io ho sempre pensato che la citazione dovesse andare al Padrino.
Balla coi lupi e in genere i film con grandi scenari. Amo i film con grandi paesaggi, dove la vista spazia sull’orizzonte lontano, dove il mondo pare tuo. Ho amato per questo motivo pure Il signore degli anelli.
Il pianista. Trovo che sia il più bel film sull’Olocausto. Senza un briciolo di retorica.
L’uomo venuto dall’impossibile. Storia di fantascienza. Lo scrittore H. G. Wells usa la macchina del tempo per seguire Jack lo Squartatore che giunge ai nostri giorni (era il 1979) per fare stragi. Grande originalità, colpi di scena e una storia d’amore come poche volte si vedono al cinema.

7. Persone a cui passo questo post.
Nessuna, mica voglio il male altrui. :-)

Chi identificherà è il personaggio ritratto nell’immagine si assicurerà ricchi premi e cotillon.

venerdì 24 febbraio 2006

Quando gli editori fanno Oh

Domanda: gli editori possono essere stupidi?
Risposta: sì, possono esserlo. Talvolta anche in maniera irritante.
In effetti per quanto riguarda il rapporto editori-scrittori sono noti i mille difetti attribuiti agli autori in cerca di editore (per lo meno sono noti a coloro che hanno familiarità in questo campo della vita). Gli autori, si dice, specie se esordienti, si dice, sono sciocchi, superficiali, dozzinali, rompiscatole, attaccabrighe, scrivono lettere lunghe e tediose, ti tengono a telefono per ore per parlarti del loro ultimo capolavoro che pare scritto da un adolescente appassionato di wrestling, sono piagnoni, cocchi di mamma, narcisi più brutti e antipatici di Sgarbi e hanno perfino il fiato che gli puzza.
E gli editori? In verità qualche volta si arriva ad ammettere che sì, quelli che ti spillano soldi dalle tasche per farti pubblicare non hanno un comportamento del tutto irreprensibile. Qualche anima bella arriva a chiamarli perfino ladri (però subito specificando che quella genia non appartiene alla nobile schiatta degli editori, ma alla più banale categoria dei furfanti da strada). In tutti i casi sulla questione della stupidità mi pare di non aver mai udito apprezzamenti in merito. Forse la mia esperienza in questo campo potrebbe essere utile per inquadrare meglio il problema.

Dunque, avevo finito di scrivere il mio romanzo e condotto una lunga e tediosa ricerca su internet per individuare gli editori che avrebbero potuto esaminarlo con un minimo di speranza di successo. Avevo letto lunghe interviste agli editori e mandato e-mail per accertarmi se chi di dovere avesse intenzione di esaminare il mio lavoro prima delle calende greche.
La lista è pronta e i pacchi postali già confezionati. Solo che mi accorgo che uno degli editori a cui intendo rivolgermi non è stato chiaro sulla questione del contributo da parte degli autori.
Bene, non è un gran male. Ci vorrà un attimo per accertarlo, mi dico. Batto una prima palla piuttosto morbida. Mando una e-mail all’editore in questione e gli chiedo se per piacere potrebbe essere più chiaro sulla faccenda del contributo, perché dall’intervista che ha rilasciato a un noto sito di internet non ci ho capito molto. Risponde come se fosse Winston Churchill con il sigaro in bocca dicendo che non ricorda l’intervista in questione, ma che lui in questi casi dice sempre che gli editori sono quelli che svolgono le operazioni per farti pubblicare il libro, mentre gli altri si devono chiamare tipografi. Tra l’altro, afferma il novello Winston, certe domande gli sembrano offensive.
Ancora io alla battuta. Nuova e-mail per dire che ancora non ho capito bene. Non potrebbe essere più chiaro, il mio interlocutore, in modo da far capire anche persone dotate di poco comprendonio come il sottoscritto?

La sua risposta mi fa pensare di aver a che fare con un individuo disturbato. Mi manda una e-mail di almeno otto cartelle (quattro della lettera in sé e quattro di Post Scriptum). Mi dice che lui è costretto a spiegarmi tutto ma proprio tutto, come in certi siti americani in cui ti suggeriscono anche come e dove aprire il pacco in cui mettere il manoscritto e magari anche con quale mano farlo. Dice che si è riletto l’intervista che ho citato e che per lui è chiarissima. Ripete pari pari gli argomenti esposti in precedenza (solo facendolo con uno sproloquio linguistico di scadente qualità letteraria tale da farti rabbrividire) e vi aggiunge un lagnoso piagnisteo su come sia difficile e duro fare il mestiere di editore con i distributori che non ti prendono in considerazione e con tutto il mondo che ti tratta da Calimero. Mi trasmette una punta di paura quando mi comunica, seguendo un percorso mentale oscuro, che lui detesta le faccine a forma di icona usate per comunicare gli stati d’animo (quegli orrori a suo dire sostituiscono la potenza e la precisione della lingua scritta: campo in cui lascia intendere di essere un’autorità riconosciuta).
E’ la volta della mia volée di rovescio. Gli dico che non gli mando più il mio romanzo (non che sia il capolavoro che il mondo attende, tutt’altro). La comunicazione tra noi non è difficile, ma impossibile. Anche nell’improbabile caso in cui fosse folgorato dalle mie qualità letterarie, come riuscirebbe a comunicarmelo se non per interposta persona? Mi avrà scritto almeno una dozzina di cartelle e io ancora non ho capito se lui questi benedetti soldi li prende o no.
Risponde ormai irridente che se non capisco dovrei cercarne la ragione nella mia testa. Fa un po’ di sproloqui penosi e pessimamente scritti. Tra l’altro dice: “Se uno che le dice ‘Quelli che bevono la Budweiser sono degli stronzi!’, lei gli andrebbe a chiedere ‘Mi scusi, lei beve la Budweiser?’.” Infine si decide a dire a grandi lettere che lui i soldi non li prende (dovrei usare il condizionale, perché ormai a questo punto il dubbio mi resta e credo mi resterà per sempre).
La mia risposta finale, purtroppo non molto urbana (ma bisogna anche considerare ciò che avevo dovuto subire e le volte che avevo fantasticato di sottoporre a tortura l’editore in questione per estorcergli la verità) è stata la seguente: “E che cavolo (l’espressione usata era lievemente diversa da questa), ci voleva tanto a dirlo?”.

Fine della conversazione virtuale, anche se il mio interlocutore mi ha scritto ancora, credo soprattutto per avere l’ultima parola. Da quel giorno mi arriva una newsletter settimanale (assolutamente non richiesta e non gradita) sulle attività di una particolare casa editrice.
Ricordo che il giorno in cui si svolse questo surreale scambio di idee considerai a fondo l’idea di dedicarmi all’attività di editore. Se la concorrenza era rappresentata da individui poco acuti come quello di cui avevo fatto la conoscenza, in poco tempo avrei conosciuto un successo strepitoso.

Leggi pure Il blillante e onolevole agente lettelalio: prima parte, seconda, puntata finale

lunedì 20 febbraio 2006

L'operaio e l'imperatore romano (ancora sulla teoria della relatività)

Abbiamo visto come il contesto sia quella cosa utile a dare significato a qualunque oggetto o situazione. Analizziamo ora l’ennesimo paradosso umano. L’uomo, infatti, non deve soltanto mirare al raggiungimento di un elevata posizione gerarchica (qui gerarchico è un attributo inteso in senso molto esteso, ma non c’è il tempo di definirlo meglio). Ma deve anche augurarsi e far sì che i suoi simili non migliorino nel frattempo la loro condizione sociale, perché ciò renderebbe vane le sue conquiste.

Il potere, si sa, necessita di una platea umana su cui esercitarlo. Se non esiste il destinatario su cui farlo valere (perché si è “emancipato” o altro), un potere si svuota. Non è più un potere. Un re esiste se ci sono sudditi. Un prete se ci sono fedeli, un maestro se ci sono allievi, un genitore se ci sono figli, un capo se ci sono subalterni.
Voglio dire che una posizione gerarchica esiste solo in relazione a un contesto con cui confrontarsi. E non basta. Se si dice che un uomo guadagna molto è solo perché in un determinato contesto la maggior parte dei suoi simili guadagna di meno. Non è il suo stipendio ad avere valore. Sono gli stipendi degli altri a conferirglielo. Se infatti tutti improvvisamente guadagnassero di più e lo stipendio dell’uomo agiato in questione rimanesse inalterato, questi si ritroverebbe automaticamente povero, pur ricevendo in pratica sempre gli stessi soldi.

Cioè ogni progresso sociale, economico, gerarchico o di altra natura da parte degli altri svaluta la mia posizione sociale, così come viene svalutata una moneta dall’aumentato valore delle altre monete. Ogni eventuale progresso sociale o economico altrui rappresenterebbe (e in realtà rappresenta) un arretramento del mio status (quo?). E solo qui possiamo capire perché la mors tua è la vita mea. Perché le tue risate sono la mia sofferenza. Perché i tuoi coiti sono la mia astinenza. Perché i tuoi figli belli e intelligenti che dicono grazie papi rendono brutti e stupidi i miei che dicono vaffanculo papi, perché i tuoi stramaledetti capelli alla Sansone mi rendono calvo.
Anche Aristide, uomo politico dell’antica Grecia noto per la sua rettitudine, dovette sperimentare che non conviene svalutare con la propria onestà quella altrui. Il giorno in cui fu proposto il suo ostracismo da Atene, Aristide, non riconosciuto, chiese lumi a un uomo che aveva appoggiato la proposta. “Aristide non mi ha fatto nulla”, rispose l’altro. “Ma non ne posso più di sentirlo chiamare il Giusto.”
L’uomo quindi, per sentirsi realizzato, non deve solo conquistare e conservare un elevato grado gerarchico, ma deve pure sperare e far sì che i suoi simili non migliorino la propria posizione, svalutando di conseguenza la sua. Cioè un “Vivi e non lasciar vivere” (il Live and Let Die della coppia James Bond/Paul McCartney).

Dove ci porta questa affermazione? Beh, se non ci raccontiamo le favole ci può portare solo alla conclusione che ogni uomo (ogni uomo che non abbiamo associato al nostro mondo interno, al nostro sistema di sopravvivenza) è nostro nemico. Ogni uomo che non sia nostro figlio o nostro padre, che non sia della nostra fede politica o squadra di pallone, che non abbia i nostri miti o le nostre idee, che non sia inglobato nel nostro io… è una terribile minaccia per la nostra esistenza. E in verità andrebbe eliminato o messo in condizione di non nuocerci. Andrebbe legato e imbavagliato, affinché perda quel suo vizio di agitarsi e cercare di cambiare le carte in tavola (le carte sociali). Andrebbe legato e imbavagliato perché perda il suo vizio di vivere.

Ultima di oggi. Non molto tempo fa, per provare la superiorità del mondo moderno rispetto al passato, è stato detto che “il tenore di vita di un operaio moderno è superiore a quello di un imperatore romano”. Sono simili semplicistiche affermazioni – che a prima vista sembrano fondate e perfino giuste – ad alimentare la leggenda che oggi l’uomo viva meglio, e che quindi sia più felice (spero un giorno di arrivare a parlare di felicità).
Il tenore di vita di una persona o di un popolo, infatti, come qualsiasi record sportivo, non si misura rapportandolo a quello di secoli prima, ma ai tenori di vita (o ai record) contemporanei. Altrimenti è come dire che un atleta scadente di oggi è in realtà un supercampione, perché al tempo degli antichi greci avrebbe vinto tutte le gare di corsa.
Dunque il massimo che si può dire è che l’imperatore romano disponeva di un tenore di vita eccezionalmente elevato e invidiabile, gozzovigliando e gaudendo in un mondo di gente spesso in ristrettezze materiali quando non in catene. L’operaio moderno, al contrario – pur disponendo di cure mediche migliori, di consumi e svaghi non accessibili a Nerone e soci – è in una situazione meno invidiabile, perché deve confrontarsi con il tenore di vita del suo “contesto temporale” (ossia di quello di gente che sta spesso meglio di lui).

Nota a margine: è probabile che qualche passaggio di questo post debba intendersi più come sfogo che come lucido argomentare

domenica 19 febbraio 2006

La teoria della relatività - Mors tua vita mea

La “mors tua” è la “vita mea”.
Soltanto questo.
E’ inutile che leggiate il mio articolo è tutto spiegato nella prima riga di questo post.
La tua morte è la mia vita. Il tuo male, il mio bene. Le tue lacrime, le mie risate.

Cominciamo terra terra. Una “teoria della relatività” dice che una cosa acquista valore perché si mette in relazione a un’altra cosa. E’ il contesto in cui si trova un oggetto, una persona un’idea, che riesce a dargli un’identità e una qualifica. Si dice che un uomo è alto perché si misura la sua altezza in rapporto all’altezza media degli altri uomini. Ma se venisse confrontata con quella di una squadra di pallacanestro, quell’individuo sarebbe dichiarato probabilmente basso. In tutti e due i casi è il contesto, cioè l’altezza media degli uomini o della squadra di basket, a conferire una qualifica all’uomo in questione.

Allo stesso modo si dice che un oggetto è pesante, prezioso o bello perché si usano certi metri di riferimento. Se se ne usassero di diversi, tutto cambierebbe. Una gallina viene considerata automaticamente stupida, anche se per le altre galline è una specie di genio, perché il contesto intellettuale con cui la si raffronta non è quello delle galline. Inutile fare l’esempio del recordman di salto in alto di inizio secolo, che oggi non verrebbe nemmeno ammesso a gareggiare perché, pur essendo un campione ai suoi tempi, in “relazione” al mondo sportivo attuale sarebbe valutato un atleta scadente.

Anche i concetti etici e le morali cambiano di significato col cambiare del contesto sociale in cui sono giudicati. Ne sia la prova la legalizzazione del divorzio e dell’aborto in paesi dove prima ciò era considerato inammissibile.
Perfino dati di fatto che ci sembrano scontati, come la bontà di un uomo, sono tali solo se il contesto intorno lo consente. E’ nota la storiella dell’isola in cui tutti gli uomini erano buoni tranne uno, che proprio per questo era trattato con mille riguardi e curato meglio di chiunque. Infatti se l’unico “cattivo” dell’isola fosse morto, gli altri avrebbero perso automaticamente la loro bontà, venendo a mancare il termine di confronto che rendeva tale quella qualità.

Quanto abbiamo descritto finora ci porta a uno dei tanti paradossi umani. L’uomo, infatti, per essere appagato non deve soltanto mirare al raggiungimento di un’elevata posizione gerarchica (la gerarchia, come meglio dirò in altre parti se ne avrò l’occasione, non si attua solo nel campo dei soldi o del potere, ma un po’ dovunque, anche in settori come la spiritualità o l’altruismo). Al contrario deve anche augurarsi e far sì che i suoi simili non migliorino nel frattempo la loro condizione sociale (o di altra natura), perché questo renderebbe vane le sue conquiste. Deve per così dire evitare che gli altri “vivino” perché questo causerebbe la sua morte.
Il Proverbio che cito ha anche un significato letterale. Infatti qualche secolo fa, quando la durata della vita si aggirava sui trent’anni o poco più, un uomo che moriva sui cinquant’anni poteva ritenersi fortunato per essere vissuto tanto a lungo. Oggi chi muore a cinquant’anni è morto circa venticinque anni prima della media degli uomini (almeno nei paesi industrializzati).

sabato 18 febbraio 2006

Dialogo tra uno sfigato e uno sfigato angelo (seconda parte)

Dove un certo particolare angelo custode ha appena fatto una proposta che purtroppo si è dovuta declinare.

- Pardon?
- Sei pure sordo, stramaledetto pennuto celeste? Nemmeno gli scorfani vogliono avere a che fare con me. L’altro giorno ho tentato di agganciare una strega con gli occhi storti in via Garibaldi, ma riuscivo solo a balbettare un idioma incomprensibile che aveva poco di umano. Quando la racchia ha capito che non le stavo chiedendo informazioni stradali, se l’è data a gambe e ha minacciato di chiamare una guardia. Dio, che figura. Manco le racchie mi calcolano. Penso che dovrò seppellirmi sotto tre metri di terra fino al giorno del giudizio.
- La situazione è delicata, non lo nego. Tuttavia cerchiamo di essere pratici. Diciamo semplicemente che non sei portato per una determinata materia, così come ci sono studenti che non se la dicono con la matematica. Diciamo addirittura che ti becchi un due liscio liscio nell’Abbordaggio Metropolitano. E che sarà mai! Ci sono altre strade.
- Quali altre strade? Sbrigati a parlare che qui si fa notte.
- Guarda, ho capito, pensi che io possa risolvere il tuo, come dire, disagio temporaneo con un colpo di bacchetta magica. Ma le cose non funzionano così. Noi angeli custodi possiamo, come dire, dare degli spunti, degli input starei per dire.
- Che minchia è un input? Perché una volta tanto non parli come quei bravi ed educati angioletti dei film di Frank Capra e non come un dannatissimo hacker? Insomma, perché non mi dici che devo fare?
- In effetti ci sarebbe una uhm… possiamo pure chiamarla strada.
- Bene, finalmente pare che ti riveli utile a qualcosa.
- Potresti come dire usufruire delle interazioni umane di una certa figura istituzionale, effettuando una moderata transazione finanziaria.
- Che diavolo blateri? Parla chiaro.
- Scusa, vienimi incontro, non è che posso strombazzarlo ai quattro venti. Capisci, ho una figura professionale altamente stimata da salvaguardare, ho una deontologia che…
- … la tua fottuta deontologia ficcatela sai dove! Fatti capire, una volta tanto.
- Sai, per dirla papale papale potresti andare a...
- ... a?
- A puttane, ecco, l'ho detta.
- Cosa? Io andare a... a....? Non posso credere che tu, una specie di parente dell’arcangelo Gabriele, mi chieda di fare una cosa simile!
- In effetti anch’io avrei preferito una soluzione oserei dire più ortodossa. Più come dire consona alla Ditta che mi fa lavorare...
- Non posso. Ho dei principi morali e a quanto vedo sono nettamente superiori a quelli della classe angiolesca. Senza contare che non ho il becco di un quattrino.
- E allora, caro figliolo, non resta che una sola opzione. L’estrema ratio. La trovata infallibile. Dobbiamo andare in chat.
- In chat?
- Certo non lo sai che la chat rigurgita di donne, a migliaia, a decine di migliaia, sono più numerose dei banchi di sardine nell’Atlantico, e hanno voglia di maschio, agognano il maschio, lo bramano, lo concupiscono perfino, sarebbero pronte a violentarlo seduta stante. Dammi retta, la chat è il nostro asso nella manica.
- Sì, mi pare la prima idea decente che ti sia venuta oggi, buono a niente di un pennuto. Dimmi come devo fare.
- Ascolta.

Dialogo tra uno sfigato e uno sfigato angelo (prima parte)

Tutti noi abbiamo un angelo custode. E’ un personaggio non sempre percepibile, ma con una grande voglia di aiutarci. Forse per la lunga frequentazione con noi, ha la spiacevole caratteristica di assomigliarci.

- Ti senti solo?
- Certo che mi sento solo.
- Ti serve una donna?
- Certo che mi serve una donna. Conosci un maschioi a cui non serva una donna?
- Come la vuoi, questa signora, fascinosa, sofisticata, intelligente e ricca?
- Dici a me?
- Ti andrebbe bene una con un paio di tette da strizzo? roba genuina al cento per cento mica queste schifezze siliconate che vanno di moda oggi, e poi ci posso mettere un par de cosce al bacio, stanghe da gemelle postkessler, per non dire che ci posso aggiungere un cu…
- … Ma ti sei rimbambito? Certo che non la voglio così. Una bomba del genere manco me guarda. Mi considera più o meno un insetto. Mi hai preso per Brad Pitt? Quella non è roba per i miei denti.
- Non ti scaldare, ti voglio solo aiutare. Sono o non sono il tuo angelo custode?
- Bah. Mi pari un mandrillo peggio di me.
- Non sottilizzare sul mio linguaggio un pochino libero. Oggi siamo alquanto informali anche lassù, cosa credi? E poi, guarda, se non sono il tuo angelo custode significa...
- ... lasciamo perdere. Hai proprio l’aria di essere il pataccaro angelo custode adatto a me.
- Allora diciamo che la bonazza sofisticata non fa per te. Diciamo che dai un calcio a questo gran paio di cosce, a queste curve da formula uno e a questo po’ po’ di altra bella roba di prima qualità. Caliamo le pretese. D’altra parte ogni buon cristiano deve fare voto di umiltà. Andiamo quindi su una donna normale. Una né bella né brutta, né intelligente né stupida, né grassa né magra. Insomma, la signora o la ragazza della porta accanto.
- No, non ci siamo ancora.
- Guarda che non dico niente di speciale. Parlo di una che trovi a ogni angolo di strada, che magari fa la commessa ai grandi magazzini e sgomita in tempo di saldi.
- Ti dico di no. Siamo ancora troppo altini. Devi calare.
Calare? Ti giuro, ragazzo mio, che tu non hai nessun rispetto di te stesso.
Lascia che al rispetto di me ci pensi io, sottospecie di angelo custode, tu pensa a calare.
- Occhei, occhei, stai calmino, io lo dicevo per il tuo bene. È che mi dispiaceva vederti con così poche ambizioni. Mi sembra uno spreco. Poi magari incontro Qualcuno, capisci, Qualcuno di Importante lassù che mi chiede se sei ridotto così male per colpa mia e allora io gli devo spiegare che…
- Puttana ladra, hai finito di cianciare?
- Occhei, come siamo permalosetti… Vediamo. Ah, ci sarebbe questo tipo qui, ma non voglio nemmeno parlartene. Mi sembrerebbe un offesa.
- Spara, dannato pennuto.
- No, davvero la mia specchiata deontologia mi impedisce...
- ... vuota il sacco o quanto è vero Iddio ti strappo quelle penne ammosciate e le mando al Carnevale di Rio per posta prioritaria.
- Beh, ci sarebbe il tipo bruttina, la racchia per intenderci. Capisci, la zitella che nessuno vuole. Quella con le gambe storte e le rughe di bile che sembrano incise con lo scalpello. Ci sei? La segretaria sottopagata e precaria a vita. Quella che i ragazzini chiamano scorfano o cesso, e ora non ti inventare che dico le parolacce. - Allora, che rispondi?
- No.
- Ah, meno male. Temevo il peggio. Già ti vedevo preso dalla fame più nera pronto ad accaparrarti l’ultimo tozzo di pane raffermo. Mi compiaccio di vedere che hai avuto un soprassalto di amor proprio.
- Non hai capito. La racchia non va bene perché non riesco a farmi notare neppure da lei.

Continua nella seconda parte.

mercoledì 15 febbraio 2006

La formula dell'amore

Ho trovato al formula dell’amore.
L’ho trovata. Ce l’ho scritta qui su un foglio davanti a me.
La sto leggendo in questo preciso istante e sto ridendo perché penso a come sarebbe più facile la vita delle persone se potessero avere la mia stessa conoscenza dei meccanismi che regolano questo sentimento.

Non sto parlando di un filtro che faccia innamorare, niente streghe per amore sulla mia scrivania. Non è una ricetta che ti porta a un intruglio per accalappiare la ragazza o il ragazzo della porta accanto (i maledetti belli e impossibili che manco ci calcolano quando li incrociamo balbettando per le scale). Parlo della comprensione degli esatti elementi, meglio degli ingredienti - e in quali precisi dosaggi - che fanno sì che questo sentimento nasca e si protragga. Parlo della formula che faccia capire perché un certo amore a un tratto finisce e perché finisce proprio in quel momento e proprio tra quei due particolari esseri umani. Perché proprio adesso e qui. Perché proprio tra me e te.
Ho tutto qui sulla mia scrivania. La formula è poco più estesa della scrittura matematica che definisce la teoria della relatività, ma, così, mi piace pensare, ugualmente rigorosa (ora però non iniziate anche voi a criticare la legge Basaglia che ha messo tanti spostati in libertà).
In verità la mia equazione dell’amore si scrive come una qualsiasi formula chimica, prendiamo ad esempio quella dell’acetato di vinile (CH3COCH=CH2). Solo che da me non ci sono le definizioni dei legami chimici, ma solo alcuni elementi (ingredienti) che si sommano, sottraggono o si frazionano. La cosa funziona così. Si assegna una certa consistenza numerica a ciascun ingrediente e infine si calcola il risultato che ottiene una determinata relazione di coppia. L’amore si ottiene solo se il risultato supera una certa soglia numerica. Se la paura fa novanta, forse pure l’amore fa lo stesso numero.

Di cosa parlo in quell’equazione? Dell’essere umano. Di cos’altro potrei parlare? Della spinta all’autoaffermazione, dei condizionamenti innati e acquisiti che ci fanno essere quelli che siamo, dell’aspirazione alla riproduzione. Parlo della storia personale di ciascuno. E soprattutto considero le aspirazioni e le aspettative che si sono alimentate in campo sentimentale, le quali sono diretta conseguenza della nostra storia personale e di ciò che siamo. Considero inoltre gli elementi biologici che fanno scattare la molla dell’attrazione e poi ce la fanno mantenere.
In realtà la mia più che una formula è una sottoformula, una specie di sottoprodotto della formula della felicità. Ho trovato anche quella, cosa credevate? Anche qui però non si tratta di un filtro che dà la felicità. Ti fa solo comprendere cos’è questa condizione e in quali precise circostanze, obbligatoriamente ineluttabilmente, si verifica.

Però sono meschino. Mi terrò la formula per me. Non servirà a darmi l’amore o la felicità. Però mi farà piacere leggerla di tanto in tanto.
Non divulgherò la mia scoperta. Perché dovrei farlo? Per essere altruista? Ma non lo sarei in tutti i casi. Questa specie di equazione dei sentimenti non serve a trovare l’amore (scusate se ho esordito facendovi credere che lo fosse). Ben lo so io che l’ho scoperta. Al massimo può farti compagnia mentre te la ripassi pensando alla tua ultima delusione sentimentale. Ti potrebbe confortare mentre ascolti Johnny Cash che, chitarra e roca voce tormentata, ti fa struggere dentro cantando “Give my love to rose”.
Datemi retta. Se mi tengo per me la formula dell’amore, se la tengo qui ben custodita sul mio tavolo, vi faccio un favore. Certe cose è meglio non conoscerle. Vi farebbero solo piangere di più.

martedì 14 febbraio 2006

Nausea di tette e culi


Ode pop (poco ode e abbastanza pop)

Se mi fate vedere un’altra sfilza di tette,
quelle grosse e appuntite che ti attirano le mani come calamite,
giuro che vomito.
Se mi fate vedere una sequela di culi,
quelli grossi e a palla,
che ti fanno sudare sei strati di epidermide solo a guardarli,
giuro che vomito.
Se mi fate vedere l’ultimo calendario
fatto da saffiche carmelitane scalze
che ballano il tuca tuca nude in piano americano
per racimolare fondi a favore del Corno d’Africa,
giuro che vomito.
Se mi fate vedere l’ultima trista blogghista che posta,
più fiera di un reduce dal D-Day col petto medagliato,
le sue mutande di pizzo mortaccino
usate in epiche tenzoni orizzontali con Peppino il salumiere sotto casa,
giuro che vomito.
Se mi fate vedere la pubblicità dello sturalavandino Bernarda’s
in cui una bonazza di quelle assassine
ti smanazza tette a mongolfiera
in tutti i ventotto pollici del tuo Mivar
facendoti gridare “Aiuto, mammina”
giuro che vomito.
Giuro che vomito
se mi fate vedere il culo grosso della signora della porta accanto
che ti fa l’occhiolino
perché si è scordata che non è il momento
in cui usa il nick Pompadour34
e scrive mmmmmmmmmm e scrive aaaahhhhhhh!!!!!

Ho la nausea se mi vedo vacillare
davanti alla vita dei jeans di una sciagurata post-lolita
situata sulla metà inferiore dei quadricipiti.
Nausea se mi vedo sbirciare
sotto una sottana matronica lassù al primo piano.
Nausea se mi vedo in un letto agitato concentrare
il mio intelletto recalcitrante
sull’ultima prodezza balistica di Del Piero
e non sulle note strutture geometriche
che mi impedirebbero il sonno.
Nausea se mi vedo cliccare
su un sito,
su un sito qualsiasi,
magari quello degli Alpini Reduci dalla Russia
e vedo
indovinate cosa vedo?

Il paradiso esiste, lo so.
Ne sono certo.
E’ un posto dove tette e culi non ti danno la caccia.
Non ti espropriano la mente e i pensieri.
Niente tette e culi in paradiso,
questa è l’unica cosa che so di quel posto.

mercoledì 8 febbraio 2006

L'apice della vita per me e per Asimov

Prima Isaac Asimov. C’era una volta un uomo di nome Isaac Asimov. Scienziato e notissimo scrittore di fantascienza, nonché forse il più letto divulgatore scientifico di tutti i tempi. Autore dell’indimenticabile ciclo di fantascienza della Fondazione. Creatore di appassionanti e vendutissimi racconti e romanzi di robot. Scrittore prolifico di centinaia e centinaia di saggi di argomento scientifico. Venne un’epoca in cui il nostro prode Asimov aveva tutto, tutto quello che in genere cercano gli uomini nella loro vita e che giudicano appagante. Aveva successo come pochi, aveva soldi quanti ne voleva, aveva (così si sarebbe espresso lui) cornucopia di donne, aveva serenità, consenso a 360 gradi e vita facile. Ebbene proprio in quell’epoca gli fu chiesto in una trasmissione televisiva di indicare il momento più felice della sua vita. Uno solo. Il punto che lui giudicava il più alto della sua esistenza.
Il prode Asimov avrebbe potuto indicare uno dei mille successi che aveva conseguito, ma non lo fece. Disse: so esattamente il momento più felice della mia vita. Avevo undici anni. Avevo da poco comprato una rivista di fantascienza (quelle pulp che furoreggiavano nell’America degli anni Trenta). E me ne tornavo a casa con la rivista sotto braccio pensando al piacere che avrei provato leggendo il racconto del mio autore preferito (roba di astronavi e alieni). Il momento più felice della mia vita, ci tenne a specificare il maestro della fantascienza, non fu quando comprai la rivista e men che meno quando la lessi. Fu lì, sulla strada per casa, con la rivista sotto braccio e la mente che spaziava nelle distese del cosmo creando le più affascinanti avventure con questo felice undicenne protagonista.

Poi l’altro. C’era un’altra volta un secondo uomo. Molto meno importante di Isaac Asimov. Anzi così poco importante che non vale nemmeno la pena di citarne il nome. Aveva poco o niente di quello che gli uomini giudicano necessario per essere appagati e certo nessun giornalista televisivo lo avrebbe intervistato nemmeno se si fosse trovato su un alto cornicione minacciando di buttarsi di sotto. Nessun giornalista gli chiese mai qual era stato il momento più bello della sua vita, ma ne aveva uno pure lui. E quel momento felice, pur essendo egli quanto di più diverso ci sia dal grande scrittore e scienziato, assomigliava parecchio a quello di Asimov. Si verificò quando quest’uomo aveva dieci o undici anni e se ne tornava a casa contento come non mai con un acquisto appena fatto dal giornalaio sotto casa. C’era una leggera pioggerellina, ricorda quest’uomo. E lui rideva sguazzando nelle pozzanghere del suo quartiere, accarezzando di tanto in tanto l’albo a fumetti che aveva acquistato. Quando lo accarezzava, ecco il momento più felice della vita di questo personaggio. Quando lo accarezzava e si vedeva proiettato in un mondo magico di supereroi. Dove avrebbe sconfitto biechi individui dotati di forza sovrumana e poteri al di là dell'immaginazione. Dove avrebbe conquistato il cuore delle più affascinanti supereroine che mai matita di disegnatore abbia creato. Era un albo di Devil, dell’Incredibile Devil, con una stupefacente avventura del tormentato Silver Surfer nella parte dedicata ai supereroi ospiti. Le pagine si alternavano, due a colori e due in bianco e nero. Avevano un profumo unico di stampa fresca. Una delle matite autrici di quell’albo apparteneva a uno dei più grandi disegnatori di fumetti di tutti i tempi, John Buscema, insuperato artefice di Conan il barbaro. Il testo era quello del mitico Stan Lee. Il nostro uomo aveva dato fondo a tutti i suoi risparmi per comprare quell’albo nuovo, sfidando pure i desideri dei genitori che gli consigliavano e quasi imponevano di usare i soldi della (magra) paghetta in modo diverso. Ma da quel giorno non ha mai smesso di credere che quello sia stato il migliore acquisto della sua vita.
La fine dei sogni

Lettera d'amore al cinema classico

Ho voglia di parlare di cinema classico, di quello che tutti noi abbiamo visto (tutti noi che siamo dai quaranta in su, per lo meno) in bianco e nero sulla Rai quando c’erano a malapena due canali nazionali. Ho voglia di parlare di Hollywood, quando i divi avevano le facce di William Powell e Myrna Loy (Nick e Nora, magnifici i loro duetti, provate a dire che li avete dimenticati) o di Charles Laughton (insuperabile cattivo di varie pellicole, ma pure splendido avvocato di Testimone d’accusa) e della dark lady Barbara Stanwyck. Ho voglia di parlare dei battibecchi scoppiettanti tra Cary Grant e Katharine Hepburn, in cui anche se ti bevevi ogni sospiro proveniente dai brutti 22 pollici del tuo antico Telefunken sapevi che eri condannato a perderti almeno quattro o cinque battute fondamentali, tali erano il ritmo e la qualità di quei dialoghi.

Ho voglia soprattutto di ricordare le potenti emozioni che provavo quando, adolescente, guardavo quei film… cioè no, non quando li guardavo, ma dopo che erano finiti. Dopo. Il bello era lì. Dopo. Quando scorrevano i titoli di coda ed eri ancora vibrante di emozione. Dopo. Quando riandavi con la mente alle scene del film e sognavi di tenere tra le braccia Marlene Dietrich vestita da marinaio o Lana Turner che fumava da un bocchino d’oro lungo tre metri. Quando ti vedevi mitragliare battute a velocità supersonica tra i prigionieri di una base artica, con l’unica donna di quelle lande desolate che guarda solo te, in attesa dell’attacco finale della Cosa da un altro mondo (ossia di James Arness, lo Zio Zeb di una nota serie televisiva western). Quando immaginavi di trovarti sotto il cappello da gangster di Humphrey Bogart e con il falcone maltese in mano, intento a dire a Mary Astor che il suo corpo magnifico non le eviterà la galera.

Perché ho intitolato questo mio contributo “lettera d’amore ”? Non so. Forse perché le sensazioni che provavo allora erano così intense da assomigliare all’amore.

Mi sono interrogato a lungo su quale fosse il genere di film che mi piaceva di più. La spiegazione più semplice è che mi piacevano tutti i generi. Dai western potenti ed epici di John Ford ai musical con Fred Astaire, Judy Garland o perfino con Deanna Durbin (un'adolescente carina degli anni Trenta che cantava con voce da soprano). Dagli insuperabili film di fantascienza dei Cinquanta ai film storici alla Cecil B. DeMille, alla magnifica commedia sofisticata con Clark Gable o Claudette Colbert o ai film d'azione con Errol Flynn (chi ha mai dimenticato il suo Robin Hood del 1939?).

Eppure, se dovessi scegliere un solo genere, un solo tipo di film, saprei che scelta fare. Amavo, provavo un brivido indimenticabile fin dalla prima inquadratura, i noir degli anni Quaranta o giù di lì, in bianco e nero, con atmosfere alla Fritz Lang o alla Billy Wilder, che venivano introdotti da una voce fuori campo che si serviva invariabilmente del pronome personale “io”. Ecco, quando mi trovavo di fronte a un film del genere, provavo una pura e primordiale gioia. Io io io. Ragazzi, quelli sì che erano tempi… Affermazione banale? Può darsi, ma chi se ne importa. Tremo ancor oggi quando ricordo la prima scena di Viale del Tramonto, quella in cui viene inquadrato il cadavere di un uomo galleggiante in una piscina e la pacata voce fuori campo di William Holden dice grosso modo: “Questo è il mio cadavere e questa è la mia storia”.

Su Billy Wilder devo dire che rimasi folgorato quando la Rai, dopo la riforma attuata nel 76, diede il più completo e appassionante ciclo che si sia mai trasmesso su questo regista. Credo che trasmettessero i film il mercoledì, e quando veniva quella fatidica giornata ero come si dice in fibrillazione aspettando la sera. Chi è abbastanza adulto ricorderà senz’altro che, prima della riforma, la Rai trasmetteva (esclusi i giorni festivi o le ricorrenze) solo due film a settimana, il lunedì e il martedì o il mercoledì a seconda delle circostanze. Oltretutto, a impoverire ulteriormente questa scarsa programmazione c'era il fatto che spesso quelle poche pellicole erano contaminate da certi odiosi film francesi che mi hanno strappato maledizioni a non finire o da storiacce con Amedeo Nazzari che solo una fame infinita di cinema ci costringeva a vedere. Chi ha vissuto quei tempi, non avrà scordato le potenti emozioni che provammo quando, dopo la riforma, si uscì dal proibizionismo cinematografico si iniziarono a mandare in onda film in gran numero e spesso di notevole qualità. Ricordo che a quei tempi mi sentivo come un allegro ubriaco il giorno dell'abolizione del proibizionismo in America.
La fabbrica dei sogni, Dieci volte cinema

martedì 7 febbraio 2006

Donne in chat du-du-du (seconda parte)

Riassunto della puntata precedente: abbiamo visto come sia arduo conseguire la piena attenzione della tua corrispondente di chat e come tale forsennata attività possa intaccare le tue esigue riserve di vitalità ancestrale. Abbiamo altresì rilevato come i patrimoni di energia spesi nella bisogna possano essere facilmente vanificati dalla tua controparte con vari pretesti caratterizzati dalla massima futilità. Analizziamo ora in che modo il tuo rapporto in chat può subire gravi intralci dopo un inizio promettente o perfino glorioso.

Ebbene, esistono almeno due modi affinché la tua nuova conoscenza raffreddi i tuoi bollori dal secondo contatto in poi. Primo modo: il giorno dopo dice che ti sente molto diverso, meno ispirato, talvolta assente, sembri quasi un’altra persona. Hai voglia di dirle che sei sempre tu, che magari denunci qualche fisiologico calo di forma dopo i fuochi d’artificio virtuali che hai dovuto tirare fuori il giorno prima per interessare la tua interlocutrice (e superare la fiera concorrenza dei gretti individui che si opponevano al tuo sogno idilliaco). Dice che no, sei un’altro, non le fai tutti i complimenti del giorno prima, non fai più le stesse magnifiche battute (quelle che il giorno prima lei commentava con “azzzzzzzzz” chilometrici)… infine ti lascia capire che forse sul tuo conto si è sbagliata. È chiaro che qui non passa molto tempo prima che arrivino le amiche in visita a casa o le richieste di aiuto e assistenza da parte di familiari e colleghi di lavoro.

La situazione anzi descritta è certo spiacevole da subire, ma è ancora niente rispetto al secondo modo di venire scaricato dalla tua corrispondente di chat (che è diventata in questo secondo caso anche la tua confidente di posta elettronica, messaggeria istantanea e infine di telefono). Questo scenario si può verificare in un tempo che varia da uno a dodici mesi. Analizziamo la situazione nel dettaglio. Dunque sono passati questi quattro mesi tumultuosi (facciamo una media tra i due estremi), in cui tu hai prodotto materiale letterario di quantità e qualità editoriale. Mesi in cui non hai dormito la notte e hai fantasticato puerilmente su scenari sentimentali (e talvolta anche sessuali, perché dopo tutto sei un essere umano) di varia natura. Mesi in cui a casa ti vedevano ridere come un fesso da solo e dedicarti alle abluzioni giornaliere con più applicazione del solito… Infine arriva la doccia ghiacciata, scozzese o quello che si vuole. La tua amata corrispondente di chat se ne viene fuori, al quarto o sesto mese in cui avete amoreggiato sia pure a distanza, con la sconvolgente notizia che in effetti tu hai equivocato il suo atteggiamento verso di te. Lei non ti ama. Ha cercato pure di dirtelo, ma tu non hai capito. Inoltre lei ha già un’altra storia. Non ricordi per caso quel ricercatore universitario di Sparapidocchio sul Naviglio di cui ti ha parlato mezza volta centosette giorni e tredici ore fa? Lei è già impegnata affettivamente (con il tizio semisconosciuto in questione) e preferisce dirtelo ora prima che tu ti faccia idee sbagliate sul suo conto. Prima? Dici tu? Ha detto proprio prima? Stai qualche minuto a cercare di capire se fa sul serio o ti prende in giro e quindi inizi l’improrogabile atto finale servendoti di una frase introdotta dalla proposizione “Ehi tu, stronza” (a questo punto non puoi fare a meno di ricorrere a un linguaggio un pelino meno signorile del tuo solito).

Il tempo e le righe volano. Mi rendo conto che in questo mio post ci sarà solo il modo di parlare di altri due tipici atteggiamenti femminili riscontrabili in chat. Il primo riguarda una ben conosciuta (piccola, in verità) ipocrisia da conversatrici virtuali. Se chiedi a una tua interlocutrice che cosa cerca e pensa di trovare in chat, otterrai un numero notevolmente articolato di risposte (voglio chiacchierare, cerco amicizie nuove, devo ammazzare il tempo in qualche modo, cerco di aumentare la mia apertura mentale), ma nessuna ti dirà mai e in nessun caso che è lì per civettare con qualche maschio o per trovare l’amore. Quasi tutte invece ti diranno che loro dal punto di vista affettivo sono soddisfatte, hanno un marito che amano ancora dopo tot anni di matrimonio (caso unico in Italia che guarda caso capita proprio a te), hanno un fidanzato moroso e fascinoso che le ricopre di regali e fa pure l’amore in modo sublime… oppure hanno già qualcuno, un qualcuno situato, è vero, in una zona remota della nazione, ma a cui pensano molto e da cui sono molto pensate. (In qualche caso qui le più ardite delle chattatrici si lasciano andare alla stupefacente confessione che in effetti questo moroso da zone remote italiane loro non è che proprio lo abbiano visto spesso - due volte nell’ultimo anno - e inoltre non sanno neppure bene se devono considerarlo o no il loro fidanzato o compagno ufficiale, però lo conoscono no? E il moroso conosce loro, non è vero pure questo? E tutto ciò non significa forse che loro dal lato sentimentale sono più che coperte e appagate?

Ultima categoria femminile che analizzo oggi. Questa categoria non ha alcun punto negativo (piccolo o grande che sia). In effetti la caratteristica di questo gruppo femminile è quella di farti impazzire all’istante. Questo tipo di donna non è sciatto nel linguaggio e non fa mille conversazioni alla volta. Ma si concentra subito su di te facendoti sentire un essere speciale e fortunato. Partecipa attivamente alla discussione e trova modi originali di portarla avanti. Ti conquista con la sua conversazione e intelligenza e ti fa dire: finalmente, eccola, l’ho trovata, è lei. Ti mette in un tale stato di fibrillazione emotiva che ti accorgi a malapena che a un tratto si sono fatte le tre notte, che stai a parlare (con quella che ormai quasi tutto te stesso considera la donna della tua vita) da cinque ore e più. Vorresti continuare a chiacchierare con lei, anche se l’indomani devi lavorare (lei no, perché ha un lavoro notturno ed è anche per questo che è ancora a parlare con te), ma poi alla fine cedi e dici che la devi lasciare. Però le confessi che già la ami o che poco ci manca e che in tutti i casi non vuoi perderla. Devi assolutamente parlare ancora con lei, è una questione di vita o di morte. Lei acconsente di buon grado. Fa pure qualche risatina. Ti fa sentire che è tua e che tale rimarrà per sempre. Ti dà il suo nick (compreso di asterischi e lineette che aggiunge se è già usato in chat), ti dice dove trovarla e a quale ora. Contento, tu infine acconsenti a lasciarla e ad abbandonarti al sonno ristoratore, che in quest’occasione ti porterà alcune delle più belle visioni oniriche che tu abbia mai avuto. Quindi l’indomani all’ora prestabilita vai in chat. Cerchi il nick. Non c’è. Cerchi con tutte le lineette e gli asterischi possibili. Nulla. Disperazione totale. Non è niente, dici, avrà avuto un inconveniente. L’indomani torni sul luogo del delitto. Ancora nisba. E niente il giorno dopo e quell’altro ancora. Sparita. La donna della tua vita è stata ingoiata nel vuoto della chat. Tenti e ritenti. Chiedi informazioni a una gentildonna con un nick simile a quello che cerchi. Quella ti chiama cazzone o coglione, se la sghignazza sul fatto che ti sei perso la Cenerentola della chat. In una sola parola ti costringe a risponderle sul suo stesso livello e anche a scendere più in basso, ricordandole il nome della città assediata dai Greci secoli prima di Cristo. Esci dalla chat e non tenti più di ritrovare la donna misteriosa che ti ha fatto sognare.

Direi che basta così. Fine (per ora) Donne in chat du-du-du (prima parte)

lunedì 6 febbraio 2006

Canzoni da bambini per un bambino adulto

Cosa ne so di canzoni per piccoli, quelle cantate perlopiù da Cristina d’Avena o dal suo erede Giorgio Vanni alla fine dei cartoni animati giapponesi? Ne so parecchio. Ho due nipoti, un maschio e una femmina a cui voglio molto bene. Un giorno pensai di fare un gioco con loro. Gli registravo le canzoni dei cartoni animati e poi le cantavamo insieme ad alta voce. Vinceva quello che sbagliava meno parole. I miei nipoti erano e sono (adesso un po’ più cresciutelli ma ancora in età da cartoni o al massimo da post-cartoni) dei soggetti molto coriacei. Però non ero sempre io quello che perdeva. Qualche volta (poche, le due piccole pesti fanno parte della razza più tosta del mondo in certi campi), dopo epiche lotte condotte senza esclusione di colpi sui Pokemon, Dragon Ball, Sabrina la streghetta, l’ispettore Gadget o sui puffi uscivo, sia pure di strettissima misura, vincitore. Non senza recriminazione da parte degli agguerritissimi sconfitti.
Ho ancora più di una videocassetta piena di canzoncine che vanno dalla Pippi Calzelunghe a cartoni a Superman, Batman, Sakura, Lady Oscar (seconda serie, un giorno magari parlerò della delle notevoli differenze interpretative tra la vecchia e nuova versione musicale della spadaccina francese), Quattro mummie in metropolitana, E’ quasi magia Johnny. E questo per tacere delle molteplici sigle di Dragon Ball, dei Pokemon, di Conan il detective con gli occhiali (che dà la caccia ai criminali), di Picchiarello (picchia Picchiarello, picchia picchia Pazzerello), del Mistero della pietra azzurra, del capolavoro stile flamenco di Zorro (canzone da non confondersi assolutamente con la pur bella sigla televisiva), di Holly e Benji o delle statuarie ragazze della pallavolo, della magica Emy o del piccolo dinosauro Denver (hai gli occhiali, il nasone all’insù, Denver) e via citando. Potrei andare avanti chissà quanto.

Ebbene un giorno memorabile decidemmo di fare una votazione. Dovevamo premiare quella che a nostro avviso era la più bella canzone per piccoli di tutti i tempi (i tempi erano solo quelli che vivevano i miei nipoti, le canzoni solo quelle dei cartoni animati). Avevamo un voto ciascuno a disposizione. Fu difficile votare. I motivi musicali erano tanti e tutti belli e trascinanti, però si doveva fare una scelta sia pure facendo rinunce dolorose. Cominciò la piccola Giulia, sei anni all’epoca. Fu dura perché non riusciva a decidersi, poi infine le uscì di bocca il nome di Sakura la streghetta (Quante carte davanti a te, mia dolce Sakura/le hai trovate in un libro che ti ha resa magica).
Fu poi la volta del più grandicello, Roberto. Lui era molto più sicuro. Anche se non riusciva a decidersi tra i Pokemon (gira, gira il mondo, gira la tua sfera / quando hai già lanciato la tua Poke ball!) e i Cavalieri dello Zodiaco (un cartone che andava forte in quel periodo). Poi dichiarò solenne il suo voto per i Pokemon.
Anch’io, pur essendo molto più adulto di età, ma forse non di comportamento, ebbi le mie esitazioni. Mi piaceva molto la sigla dello Zorro a cartoni (trombe e chitarra da favola), ma non mi dispiacevano neppure i Pokemon. Poi feci la sola scelta giusta. Indicai la prima versione della sigla di Dragon Ball, un cartone di arti marziali e scontri galattici, la versione più vecchia e per me la sola (di questo cartone ce ne sono almeno quattro sigle diverse, sempre che non siano cresciute di numero negli ultimi anni: da quando i miei nipoti sono cresciuti non registro più le canzoni). Era ed è trascinante, con una rara ricchezza e varietà ritmica, una forza. Dopo lunghe e complicate discussioni, facendo forza anche sull’autorità datami da età e dalla (scarsa) maturità, riuscii a far accettare ai miei nipoti il mio punto di vista. Dunque per noi tre la canzone per bambini più bella di tutti i tempi è resterà per sempre la prima versione di Dragon Ball. Ecco il testo di sotto.

Dragon Ball (fastest? through the clouds), Dragon Ball (fighting on the ground),
Dragon Ball (Dragon), ohohoh...
Quante avventure fantastiche, fra mille azioni acrobatiche,
tanti avversari da battere, con forza e volontà!
Sei veramente fortissimo, ma tu non sai dove arriverai,
con le sette sfere: D R A G O N Ball!!
Combatti per trovare il Drago, Dragon Ball,
il Drago delle sette sfere, Dragon Ball,
però neessuno sa, dove staaa!! (D R A G O...Drago! Drago!!)
Dragon Ball (fastest? through the clouds), Dragon Ball (fighting on the ground),
Dragon Ball , ohohoh...
Se vuoi trovare le sfere magiche, percorri la via davanti a te,
segui il tuo sentiero, sei un guerriero, Dragon Baaaall,
D R A G O N Ball!
Se chiudi gli occhi vedi il Drago, Dragon Ball,
e senti tutto il suo potere, Dragon Ball,
ma quando aarrivi tu, non c'è piùùù!!(D R A G O...Drago! Drago!!)
Combatti per trovare il Drago, Dragon Ball,
il Drago delle sette sfere, Dragon Ball,
però neessuno sa, dove staaa!! (D R A G O...Drago! Drago!!)
Dragon Ball!!

venerdì 3 febbraio 2006

Donne in chat du-du-du (prima parte)

Ho visto in questi paraggi bloghiferi eleganti e intelligenti signore dedite a rilasciare suggerimenti sulle buone maniere femminili. Non mi pare di averle mai viste affrontare l’argomento chat; e a questo proposito vorrei esortarle vivamente a colmare questa mancanza affinché non si verifichino gli incresciosi episodi sotto riportati. E’ chiaro che gli episodi incresciosi riguardano anche il genere maschile, ma non è questa la sede per trattarli.

Cominciamo da uno dei più lievi peccatucci, ma non per questo meno antipatici, delle chattatrici. Ossia il fatto che quando ne contatti una sei più che certo che è già impegnata in almeno altre due o tre conversazioni private e in fitti e furiosi commenti nella room o come diavolo si chiama che fanno più o meno “Oeeeeee ciaooooooo” o “Ve saluto, vado a dormììììììì!!!!!!!!». All’inizio non fai caso alla scarsa considerazione che susciti, ti pare sufficiente il fatto di aver ricevuto una risposta. Inoltre rifletti e speri che al più presto la tua controparte prenderà una decisione in tuo favore colpita dal tuo eloquio e dal trasporto per non dire sentimento con cui ti rivolgi a lei.

Pia illusione. Ecco che è passato già un quarto d’ora, in cui hai cercato di dare il meglio di te, e che la tua corrispondente di chat ancora non ha sciolto il dilemma su a chi concedere le sue grazie (e la sua attenzione). Passa ancora tempo. Hai appena fatto una battuta che giudichi ai limiti della genialità e attendi con impazienza un qualsiasi segno di vita proveniente dall’altra parte. Niente. Passano i secondi. Niente. Ti dici che forse non ha capito, ha avuto un improvviso problema psicofisico, un calo degli zuccheri, un deliquio susseguente a pene d’amore e chiedi ingenuo se è ancora in linea. Niente ancora. Allora usi gli strumenti della chat e noti che la fascinosa donzella con cui comunichi da mezz’ora (le immagini tutte fascinose, le tue conoscenze virtuali) ha appena fatto il suo ultimo commento mezzo secondo prima. E poi ne fa ancora un’altro e un altro ancora. E a te ancora non arriva niente. Reprimi imprecazioni e esternazioni poco cavalleresche e poi capisci che hai fatto la scelta più saggia. La situazione si sblocca. Ti arriva il sospirato commento, anche se magari non è esattamente la reazione che agognavi. In effetti si tratta di un commento memorabile tipo “Ma dici davvero?” o “Certo, è proprio così” o peggio ancora “Azzzzzzzzz” (scritto così, con un numero di zeta variabile da cinque a quindici).

Arrivato a questo punto sei colpito a morte. Chiedi alla tua interlocutrice di fare una scelta. O te o l’altro (meglio sarebbe dire gli altri). Dici che secondo te è già difficile dire qualcosa di vagamente sensato o interessante se si parla con una sola persona, figuriamoci cosa può capitare se duetti con tre o quattro maschi per volta (non vuoi ancora ammetterlo, ma in realtà già pensi che la qualità dei commenti della tua controparte non migliorerebbe in maniera avvertibile anche se concentrasse la sua attenzione ballerina su te e su te solo). A questo punto la tua richiesta può generare due tipi di reazioni. Ci sono quelle che ammettono che in effetti sì, fanno anche una seconda conversazione, ma è che hanno dovuto salutare un amico che non vedevano dai tempi delle elementari che non si sa come è riuscito a individuarle anche se hanno cambiato nick (e ti lasciano capire che appena lo potranno liquidare tu diventerai il solo uomo della loro vita)… E ci sono quelle che ti chiedono che cosa c’è di male se parlano con due o tre persone alla volta, loro sono qui per questo, per chiacchierare e fare amicizia e sono assolutamente attentissime a ciò che dici. In tutti i casi, conclude questo secondo gruppo di fanciulle virtuali dopo che hai gettato al vento le migliori risorse mentali e la migliore ora della tua vita per attirare la loro attenzione, se questa situazione non ti aggrada puoi rivolgerti a un altro indirizzo.

Ovviamente ci sono pure quelle che le scelte le fanno, ma chissà perché ciò capita sempre a tuo discapito. Ed ecco allora che sono arrivate improvvisamente delle amiche a casa, ecco che bisogna andare a prendere i figli a scuola, ecco che si deve preparare la cena o fare la spesa, ecco che ci sono degli impegni improrogabili di lavoro da svolgere pena il licenziamento e la riduzione all’accattonaggio.

In tutti i casi certe volte sei più fortunato del solito e ti rendi conto di essere il solo interlocutore della signora che hai contattato. In effetti le cose non vanno poi così male tra te e lei. Risponde con adeguata prontezza e, insomma, senti come una specie di fluido speciale che vi lega insieme. Purtroppo per te, hai già sprecato il meglio delle tue energie da chattatore in vani tentativi con altre sue colleghe di sesso, hai dato fondo alla tua ironia e capacità di inventarti temi di conversazione originali. Allora, esausto, hai un cedimento. E chiedi alla tua interlocutrice di dare lei qualche contributo per vivacizzare la conversazione che langue. Non l’avessi mai fatto. Ecco infatti che ti vedi aggredire dai famigerati “da dove”, “anni”, «sposato?», «no, e perché», «sì, e hai figli?»… per finire, in un crescendo nefasto, al terrorizzante “di che segno sei?» La battuta sul segno zodiacale può essere peggiorata (in rari casi, devo ammetterlo) dalla rivelazione che il tuo segno è uno dei pochi che manca alla collezione di scalpi sessuali vantata dalla tua interlocutrice.

Continua alla prossima puntata Donne in chat du-du-du (seconda parte)

La più grande partita di tutti i tempi

L’anno, l’Ottantanove, il 5 aprile. Il posto, lo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, in campo Real e Milan. L’ora, le nove di sera o poco prima.
L’occasione: la più grande partita di tutti i tempi, quella che aspetti da vent’anni. Quella che vedrai una sola volta nella vita.
E’ fatta, è il giorno della verità. Lo stadio di Madrid è gremito in ogni ordine di posti. I tifosi spagnoli si preparano a fare festa ai danni dell’ultima vittima sacrificale italiana (qualcuno di loro pensa che le squadre italiane sono state create per questo, per farsi massacrare con poco onore nella bolgia del Bernabeu dopo aver cullato assurde speranze di passare il turno di Coppa dei Campioni). Le squadre sono in campo. Flash dei fotografi. Cori assordanti basati sulla ripetizione della parola “matar”. Tensione. Tensione anche nella voce del telecronista della Rai. Ci fosse Garibaldi in tribuna Vip, direbbe: “Qui si fa l’Italia (quella nuova del calcio) o si muore”.

Da una parte i temutissimi giustizieri del Real. Ecco nel cerchio del centrocampo la figura dell’”avvoltoio” Emilio Butragueño, che già fissa rapace la porta in cui fatalmente piazzerà qualcuna delle sue fulminee zampate da opportunista. Un po’ più in là stazionano il portiere Buyo e il gelido alemanno Bernd Shuster. Il 46 di piede attribuito al potente giocatore tedesco non è certo l’arma più pericolosa che il munitissimo arsenale del Real Madrid può schierare questa sera.
Non è finita. Ecco ancora, ripresa per un attimo a tutto schermo, la bruna sagoma del centravanti madridista Hugo Sanchez, il più grande giocatore messicano di tutti i tempi. Ah, Hugo, quanti dispiaceri ci hai dato! Per noi tifosi italiani sembri il becchino incaricato di sotterrare i nostri sogni di gloria. Hai assassinato l’Inter per ben due volte nella trappola mortale che chiamate stadio Santiago Bernabeu. Quante volte ti abbiamo visto fare i salti mortali con cui festeggi i gol! Le tue capriole sono uno spettacolo, degne di un acrobata da circo, ma noi qui in Italia non siamo mai riusciti ad apprezzarle quanto meritano. Anzi per molti di noi quello del tuo salto mortale in avanti è il momento di spegnere il televisore. Il momento di capire che tutto è perduto.
Dall’altra parte del campo, i giocatori del Milan sono intorno all’allenatore per gli ultimi suggerimenti prima dell’incontro. Ecco le treccine reggae e la figura statuaria di Ruud Gullit, l’unico non accigliato. Ecco l’elegante silhouette del Cigno Van Basten, più silenzioso e serio che mai, sa che quella sera si deciderà il futuro suo e della squadra. Ecco Carlo Ancelotti a stretto contatto con lo staff tecnico, con accanto il re del dribbling Donadoni e il giovane Maldini, ed ecco infine l’uomo nato per giocare quella partita, l’uomo senza paura, quello che non arretra, il duro di quando i tempi si fanno duri, l’ultimo dei Trecento alle Termopili a cedere il passo, ecco Franco Baresi con gli occhi ridotti a due fessure attraverso cui scruta il mondo ostile che vorrebbe triturarlo e rimandarlo in Italia con le ossa rotte. Se questa partita sarà una disfatta, come molti pensano e sperano, anche in Italia, non c’è dubbio che Franco Baresi sarà l’ultimo ad arrendersi e morirà con la bandiera rossonera (e anche con un po’ di Tricolore) in pugno.

C’è il tempo di vedere in eurovisione l’ultimo dei protagonisti di questa serata, ma forse il primo. Ha un paio di grossi occhiali da sole che di recente inforca anche a mezzanotte nelle strade più buie di Milano e Fusignano. Sotto le lenti scure nasconde occhi che dardeggiano fuoco allo stato puro, li abbiamo visti qualche volta nelle interviste prima della partita e ci hanno impressionato. Quando fissa la telecamera, consigliamo ai bambini di guardare altrove. E’ lui. Il Messia. Il pazzo. L’ayatollah del calcio. Colui che non conosce compromessi e diplomazia. L’uomo che si è messo in testa un’idea meravigliosa e anche assurda.
No, non è Cesare Ragazzi, anche se avrebbe assoluto bisogno di un trapianto di capelli che gli vivacizzi il cranio pelato anzitempo. E’ Arrigo Sacchi. L’uomo rimasto bambino. Il nemico pubblico numero uno del gioco all’italiana. Il sognatore del gioco d’attacco da attuare nella patria del Catenaccio. Il Robespierre senza compressi che decapiterà e morirà decapitato.
Sacchi ha parlato molto negli ultimi tempi. Per alcuni dei suoi tantissimi detrattori (in questi primi quattro mesi del 1989 deve essere in assoluto il personaggio più odiato d’Italia, perfino più di Giulio Andreotti e Bettino Craxi messi insieme), ha parlato pure troppo. Ha detto, contro il parere di autorevoli critici sportivi alla Gianni Brera, che pure in Italia si può attuare il pressing, premessa indispensabile per il gioco d’attacco di cui lui è il primo fautore. Ha detto che il ruolo di “libero” per lui è morto e sepolto. Ha giurato che preferirebbe mille volte la morte a una delle classiche partite difensiviste del gioco all’italiana, con gli avversari che bivaccano nella tua area da rigore come Lanzichenecchi e tu difensore che quasi caschi in ginocchio chiedendo salva la vita. Ha detto che la difesa si deve attuare sulla linea di centrocampo e non nell’area di rigore (talvolta in quella piccola) in cui si rifugiano le tremebonde squadre del Belpaese. Infine ha annunciato, con una delle sue battute che tanto piacciono ai tifosi quanto fanno ingoiare litri di bile amara alla classe dei giornalisti quasi al completo, che se vede un suo giocatore correre indietro invece che in avanti entra in campo e gli spara un colpo alla nuca.

E’ vero, il Messia del Calcio ha parlato molto. Ora però, sotto gli occhiali da sole con cui nasconde la sua enorme tensione, anche lui deve temere di aver parlato troppo. Anche lui deve pensare che forse la sua carriera di allenatore è giunta al capolinea. Certo, è facile dire che per una squadra vera di calcio non fa differenza giocare in casa o fuori; ed è ancora più facile sostenere che quella squadra deve saper imporre il suo gioco sul suo campo e dovunque. Ma quell’affermazione non può essere vera quando vai a giocare nello stadio più difficile del mondo, contro la squadra più blasonata che esista. No, se Arrigo ha conservato un briciolo di raziocinio, anche lui starà riflettendo che la cosa migliore che gli può portare questa serata è una sconfitta di misura, ottenuta senza dover subire troppo la pressione dei padroni di casa… e forse pure questo è sperare troppo.
Basta, non c’è più tempo per pensare o avere paura. La partita ha inizio. Il fischio dell’arbitro risuona con una nota secca, che sa di campana a morte.

giovedì 2 febbraio 2006

Dizionario ragionato della chat


N.d.R. Chiedesi aiuto e collaborazione per aumentare il numero delle voci presenti nel dizionario. I suggeritori si guadagneranno la riconoscenza imperitura dell’autore del post.

Azz. Voce importata dal dialetto napoletano. Usata per manifestare fiorito stupore, partecipazione umana o semplicemente come intercalare. Da usare, insieme con altri termini regionali, per rafforzare la base linguistica del linguaggio da chat. Il numero delle zeta pare collegato direttamente all’efficacia dell’espressione. V. DIALETTO ROMANESCO

Dialetto romanesco. Parlata locale che costituisce il fondamento espressivo di ogni chattatore o aspirante tale, non esclusi i nativi di Courmayeur o di Motta di Livenza (e perfino degli iscritti e dei militanti della Lega Nord). Ancora sconosciuta la causa originaria dell’uso. Recenti studi antropologici proverebbero che il dialetto romanesco da chat è percepito come segno di distinzione linguistica e sintomo certo di vivacità mentale. Si notino le forme “Eusapia71 ha vissuto una delusione d’amore, poverina, è sconvolta” e “Eusapia71 se l’è preso a pecora, nun se dà pace, ce rimasta de bestia”. Qualsiasi chattatore degno di nota sceglierà la seconda espressione valutandola come più incisiva e perspicace.

Eheheheheh. Risatina onomatopeica. Molto più diffusa della forma ahahahahah o aaaahhhhh. Conosciuta anche nella forma eeeeeeeeehhhhhhh (che ha pure valenza di ghigno pseudofurbesco). Suono che conferisce a chi lo digita una strana e inspiegabile fiducia nel suo senso dell’umorismo.

Emoticons. Piccole icone espressive da scambiarsi in special modo durante conversazioni private (V. PVT). Sono patrimonio prioritario anche se non esclusivo delle conversatrici virtuali e contengono una vaga promessa di ricompense sentimentali future. Favoriscono emozioni leggiadre e desideri di sinceri contatti umani. Molto usata la delicata emoticons a forma di sole che sorride, da usare specie dopo espressioni quali: “Nun ce sta a provà cumme’…. a frocioooo….. xkè te taglio l’involtino e lo ammocco a sto stronzo de cane”.

Galateo. Norme di buona condotta da osservare in chat. Assolutamente da evitare il maiuscolo o le espressioni sconce nella room (vedere voce analoga). Malvisti anche gli annunci di orge da attuare con le native toscane non oltre la regione aretina o con le campane del solo territorio vesuviano. Gradito il saluto all’entrata in room. Mentre paiono non suscitare alcun fastidio o reprimenda le interminabili conversazioni di gruppo aventi come argomento di discussione il nulla.

Lettera finale. Di estrema importanza per determinare l’enfasi della comunicazione. Tutte le lettere finali di qualsiasi parola o frase sono passibili di prolungamento. Si veda il tipo “Qualcunaaaaaa deeeee Pontecchio a Mareeeeeeee???????”

Minchia. Modo di dire del dialetto siciliano usato in concomitanza con il supporto romanesco per aumentare l’effetto di esclamazioni o esortazioni (Ma che minchia stai a dì, a ‘mbranato?)

Na. Meglio naaaaaa. Meglio ancora naaah-haaaa. Sostituisce il no. Importato direttamente da “Quelli della notte”. Il valore positivo di questo vocabolo risulta essere seeeeeee (gradito ma non obbligatorio il prolungamento della lettera finale)

Nn. Sta per “non” vocabolo rappresentativo del vasto patrimonio di espressioni sinottiche adoperate nella conversazione virtuale. Termine molto in voga anche se generatore di esiguo risparmio linguistico. Pare che la tendenza alla sintesi in chat sia dovuta ai primi tempi di internet, in cui computer e connessioni remote erano molto lenti, e molto meno diffuse di adesso le connessioni flat. L’uso (o l’abuso per alcuni) è rimasto anche dopo le mutate condizioni tecnologiche Altre forme conosciute di parole abbreviate: cmq per comunque, x per per, k per ch. Molto usata - non solo dai tredicenni con problemi affettivi con la mamma che si rifiuta di comprargli il cagnolino con la scusa della cacca sul divano - la forma xké in luogo di perché.

Ops, leggero segno di sorpresa. Uno dei pochi vezzi della chat che pare non integrarsi con dialetti e pose da bullo che la fanno da padrone.

Ok. Conosciuta voce americanizzata. Da usare solo in caso di odii potenti e duraturi. Un Ok ben rilasciato ha la capacità di uccidere all’istante il tuo interlocutore virtuale, specie dopo che lui ti ha fatto una lunga e esaustiva narrazione delle sue pene amorose o del punto morto a cui è arrivata la sua tormentata esistenza su questa terra.

Pvt. Sta per “privato” o per “conversazione privata”. Luogo della chat in cui si espletano rapporti umani volti principalmente alla procreazione. Strumento non ancora funzionante al tempo del Cinema dell’Incomunicabilità, ma che pare diretta derivazione di quel movimento culturale. V. ROOM

Punteggiatura. Uno dei campi in cui il neolinguaggio virtuale ha portato più e più fecondi risultati. Il primo effetto visibile del nuovo modo di comunicare è il recupero in grande stile del punto esclamativo. Quasi ogni chattista considera grande merito quello di rilasciare due, meglio se quattro o cinque, punti esclamativi in ogni frase. Sorte simile, anche se lievemente meno fortunata, ha rivelato il punto interrogativo, da usare anche da solo (?) in luogo della proposizione “Ma che cazzo stai a dì?”. I puntini sospensivi sono passati dai canonici tre delle origini agli attuali quattro, cinque, sei o a numeri enormemente superiori. In alcuni digitatori, virtuali, essi hanno del tutto sostituito il punto fermo a fine frase. Riguardo al punto e virgola, pare che ne sia stato avvistato uno nel settembre del 2003 in una chat denominata “amatori del barolo e della bernarda”. E’ ancora aperta al diatriba se esso sia da attribuire a un errore di digitazione dovuto a libagioni ad alto tasso alcolico.

Room. Luogo in cui si espletano conversazioni di gruppo che sviscerano fondamentali e elevati aspetti della vita. Ecco un tipico scambio di battute che si attua in questi luoghi: A esordisce con qualcosa tipo “Me sto a magnà l’insalata coe pummarole veraci, che goduriaaaaa”. B replica più o meno “A ‘nfame……. te possi ‘ngozzààààà, io c’ho solo er tonno” e C soggiunge “Avete visto ke mazzzz Valeron_??????? “ D pensa che sia utile per le sorti del mondo rilasciare un commento che fa più o meno così “Uhmmmm, !!!!!!!!” Infine E dichiara all’attentissimo uditorio della room: “Nun me state a parlà de magnà…………. so kiatta come na porka e sabato me sposoooooooooo”. E chiaramente via così per “nartro par de oreeee………”.

Smaaack. Suono onomatopeico del bacio. Molto usato dalle fanciulle ultracinquantenni per ricompensare corteggiatori sessagenari per elogi assolutamente infondati e perfino ridicoli.

Uaaazzz uaaazzz. Suono onomatopeico che indica la sghignazzata, crassa e compiaciuta, del medio fruitore da chat. Da non confondersi con il somigliante azzzz (V. voce in oggetto)

Wow. Nessun commento. Si consigliano subitanee fughe dagli adoperatori di questo termine.

In attesa di integrazioni future, sentitamente l’autore ringrazia.
Dizionario ragionato del blog