domenica 30 aprile 2006

A me queste tre - Epoca moderna

Datemi queste tre e mi darete il paradiso.
Parlerò di tre attrici moderne che mi piacciono. La loro caratteristica non è quella di saper recitare (anche se per me l’espressione “saper recitare” non ha alcun senso, mentre ne ha la frase “non saper recitare”), ma di essere bellissime e di suscitare, nel mio tempestoso cuore, fantasie romantiche. Il fattore comune di queste figlie di Dio è di giustificare con un loro primo piano, almeno di fronte al mio rozzo intelletto, un’intera scena, al di là del valore del film o della sceneggiatura.

La prima di queste attrici si chiama Jennifer Connelly, tra l’altro vincitrice di un premio Oscar nel film A beautiful mind. Il film in questione mi è piaciuto, bella regia di Ron Howard, ossia l’attore che recitava Richie nel telefilm “Happy days”. Ma giuro sull’Onnipotente che non mi ero affatto accorto che la Connelly fosse brava a recitare (uso questo termine per comodità pur avendolo criticato). Ricordo alla perfezione la sua magnetica beltà quando indossava un lungo e verde vestito anni Cinquanta e come il suo sorriso seducente facesse ammattire il già matto genio matematico Russell Crowe. Ho rivisto la Connelly ieri sera nel dvd Hulk , film scadente, prolisso e confusionario a differenza della riuscita riduzione cinematografica del marveliano Spiderman. C’erano molti primi piani della Connelly e a ciascuna di quelle inquadrature io, immancabilmente, esclamavo “Che donna!” (la migliore inquadratura era di tre quarti, con un ciuffo di capelli che le pioveva artistico tra la gota pallida e l’orecchio dalla perfetta fattura, la bocca lievemente socchiusa a mostrare labbra turgide capaci nell’immaginario di esalare sussurri d’amore inauditi).

La seconda del trio di maliarde è Kate Beckinsale. Molti la ricorderanno nell’epopea fumettistico-horror di Underworld. Questo film è una boiata pazzesca, anche se con discrete atmosfere dark e scene d’azione ben costruite, in cui i vampiri se le danno di santa ragione con i licantropi. La Beckinsale ovviamente la fa da padrone con le sue tute aderenti alla Matrix. La storia in cui tuttavia mi fulminò è Perl Harbour in cui interpretava un’infermiera bella e impossibile… mai visto un paio di labbra femminili così rosse come in quel film, senza parlare dello stile unico con cui la Nostra portava quei cappelli bianchi a larga falda anni Quaranta e dell’ironia mista a desiderio con ti guardava dallo schermo. Nota a margine: il film mi deluse nel finale perché io parteggiavo per quello, tra i due piloti di caccia pretendenti della Beckinsale, poi rivelatosi il perdente in amore. Forse ero solidale con lo sconfitto a causa di mie esperienze analoghe.

A chiudere con Liv Tyler, figlia del cantante del gruppo rock degli Aerosmith. E’ stata un’abbagliante principessa elfa nella trilogia del Signore degli anelli. Io ne fui conquistato in Armageddon (anche qui un film fatto alla carlona, sconclusionato, ma con una protagonista assolutamente ammaliante). Negli ultimi tempi mi pare aver perso un po’ smalto. L’ho vista ingrassata in una commedia recitata con Ben Affleck, ma forse si trattava di esigenze cinematografiche.

Se ne avrò l’occasione parlerò di altre triplette cinematografiche femminili. Quella di epoca classica capitanata dalla gelida e disillusa, talvolta cinica, Marlene Dietrich e quella della “Terra di mezzo” capitanata da Sean Young , ossia l'indimenticabile Rachel, la bladerunneriana replicante inumana di cui ciascuno di noi si innamorerebbe in due secondi (le donne in carne e ossa scusino la nostra debolezza).

giovedì 27 aprile 2006

Country, ovvero le praterie di dentro

Credo di aver sempre amato il country, solo che per parecchio tempo non l’ho saputo. Avevo ascoltato qualcosa di questo genere musicale sempre con gran piacere, tipo “Everybody talkin’” di Harry Nilsson (il tema principale del notevole film Un uomo da marciapiede, canzone premiata con l’Oscar) o “High Noon” di Frankie Laine (ossia il tema conduttore di un capolavoro del cinema quale Mezzogiorno di fuoco: che sofferenza non poter parlare qui di questo straordinario film!).

Poi un giorno mi venne la fissa degli mp3. Ne registravo in continuazione. Di tutti i generi e di ogni contesto musicale. Mi procurai l’elenco dei vincitori del Grammy (che dopo il bel piazzamento pausiniano molti sapranno essere il massimo premio musicale americano) e cominciai a registrare i vincitori dal ’58, ossia dall’anno in cui Modugno, circostanza ignota ai più, vinse il premio principale della manifestazione con “Nel blu dipinto di blu”. Il Grammy ha molte categorie. Pop, rock, rhythm & blues, ora pure rap e via dicendo. C’era anche il country. Cominciai a registrare i vincitori (ogni anno sono premiate diverse canzoni per ogni genere: miglior brano, migliore interpretazione, maschile, femminile e di gruppo, migliore scrittura musicale eccetera). C’era un bel po’ di roba.
Il punto di svolta avvenne quando mi imbattei in “Solitary man” di Johnny Cash, brano che mi si confà già dal titolo. Lì mi dissi questa è la musica che fa per me. Chitarra, al massimo due, e voce malinconica e suggestiva, al massimo due. Mi buttai sul country e cercai di procurarmi quanto più possibile di questo genere musicale.

Nei Grammy country ho trovato un bel po’ di roba piacevole. I due cantanti che mi piacciono di più, oltre al citato Cash (ho suggerito a qualche amico del blog di ascoltare “One” del Nostro e più di uno ha riconosciuto la superiorità della versione di Johnny rispetto a quella pur notevole degli U2), si chiamano Allison Krauss e Willie Nelson. La Krauss è una brava interprete di canzoni perlopiù tristi e romantiche (quella che preferisco si chiama “The lucky one”); è anche una discreta chitarrista e, a dispetto del suo nome alemanno, se ricordo bene ha nel repertorio parecchie canzoni di ambito messicano. Di Willie Nelson, ricordo una versione country di “Georgia” e la sua coinvolgente “Always on my mind”, cantata pure da Elvis in tempi storici. Della produzione musicale dell’eccezionale Cash, oltre alle citate “Solitary man” e “One”, una menzione obbligata va a “Give my love to rose” (eseguita con una chitarra pizzicata, la sua voce roca e nient’altro, se non il tuo cuore che batte forte durante l’ascolto). Naturalmente ci sono molti altri interpreti e canzoni, ma sarebbe lungo ricordarli qui.

Una curiosità. Dopo aver visto The blues brothers per anni ho pensato che il country fosse musica per ritardati mentali (naturalmente anche in questo genere musicale è possibile e anzi probabile trovare un mucchio di schifezze che brutalizzano le sette note). Poi mi è capitato di ascoltare una delle canzoni che i terribili Fratelli Blues ridicolizzavano nel loro film, “Stand by your man”, (era quando cantavano in quel locale frequentato da bovari che li prendevano di mira con ogni sorta di bottiglie e cristallerie)… e mi è piaciuta. Poi mi sono accorto che pure la versione dei Blues Brothers, quella che avrebbe dovuto essere melensa e ridicola, anche quella mi piaceva, e non perché fosse ironica.

Infine, che sensazioni mi suggerisce l’ascolto di un buon pezzo di Cash e compagni? Sicuramente una lietezza dell’animo ispirata da grandi scenari in cui la mente spazia come vuole. Vedo le grandi praterie dentro di me? Si potrebbe dire così. E forse pure i bisonti di cui ho parlato in un altro post e un mondo nuovo e fresco e giovane e tuo. Soprattutto tuo. Un mondo in cui dominano la natura e i sentimenti, dove non ti senti ospite come talvolta capita in qualcuno dei nostri paesaggi metropolitani, ma in cui avverti che ogni avventura e ogni amore sono possibili. Sono sicuramente suggestioni non troppo meditate e realistiche. Ma la mente talvolta ci fa di questi scherzi e ci rende felici anche se ci imbroglia un po’.

mercoledì 26 aprile 2006

Ultimo desiderio di un condannato a morte

“Allora, signore, avete deciso qual è il vostro ultimo desiderio?”
Il comandante del plotone di esecuzione del mio sogno mi guardava lisciandosi i baffi alla ussaro napoleonico. Dietro di lui, una fila di soldati in divise ottocentesche già impugnava i fucili con cui giustiziarmi.
“Io, signore, ecco, in effetti credo che avrei deciso…” E’ strano, nel mio sogno avevo una voce più imbarazzata che spaventata anche se tra poco mi avrebbero bucherellato per bene.
“Dite pure, farò quanto è in mio potere per accontentarvi.” Il comandante del plotone era un ufficiale (e gentiluomo) della vecchia scuola. Uno di questi bellimbusti che ti ammazzano sì, ma solo dopo essere stato certi di aver seguito tutti i codici cavallereschi elaborati da Riccardo Cuor di Leone in poi.
“Io credo di, come dire, di volere, ossia se non avete niente in contrario…”
“Sì?”
“Ehm, vorrei una ehm donna… cioè, se fosse possibile…”
“Volete una donna?” Lo sguardo in tralice dell’ufficiale del sogno mi comunicava che quel desiderio non era esattamente contemperato dai dettami riccardocuorleoneschi. “E cosa ci vorreste fare con questa madamigella?”
“Oh, ma non è come voi credete. Io non sono assolutamente il tipo di persona che ardirebbe… che oserebbe… e poi in un momento come questo… Si tratta di un desiderio davvero stupido.”
“Parlate senza problemi.”
“Io… ecco… con questa fanciulla…”
“Fanciulla?” L’ufficiale mi fulminò con uno sguardo.
“Insomma, con questa signorina…”
“Avete detto signorina?”
“Ehm, volevo dire una signora matura, anche sposata… cioè, è meglio che non sia sposata, credo...”
“Dite cosa vorreste fare con questa donzella.” Il comandante del plotone di esecuzione ridacchiò poco cavalleresco e lo stesso fecero i rozzi individui aspiranti fucilatori.
Presi fiato e quindi dissi tutto d’un fiato, cercando di superare la vergogna: “Ecco io vorrei portare in braccio questa donzella.”
“Vorreste portarla in braccio?”
“Sì per due piani di scale.”
Ora il comandante e il plotone di esecuzione ridevano senza freno; la benda nera da usare per l’esecuzione aveva smesso di oscillarmi davanti agli occhi come aveva fatto negli ultimi secondi. “E poi?”
“E poi niente, no? Depongo la donzella dentro l’appartamento e torno qui a farmi fucilare.”
“Quindi il vostro ultimo desiderio è portare un donna in braccio per due piani di scale.”
“L’ho appena detto, no? So che può sembrare una richiesta, come dire, originale…”
“… chiamatela pure originale se vi va…”
“… Ma è una cosa che ho sempre desiderato fare. Purtroppo non ne ho mai avuto l’occasione perché…”
Il ghigno dell’ufficiale diceva che non c’era necessità di spiegare quel punto.
“Vi dispiacerebbe togliermi una curiosità? Voi avete espresso questo desiderio solo perché avete capito che questo è un sogno, vero? Nella realtà voi non avreste mai manifestato mai un desiderio così…” Il mio interlocutore cercava le parole. “… un proposito così…” Dava l’impressione di non trovare un termine abbastanza corrosivo per esporre il suo pensiero.
“Certo”, sbottai cercando di apparire sincero. “Nella realtà ho desideri molto più seri. Molto, ma molto più seri. Non dovrei nemmeno rispondere a una domanda tanto inopportuna!”
“Bah”, l’ufficiale mi guardò dubbioso.
Credo che nel sogno non abbiano esaudito il mio desiderio di portare in braccio una donzella per un paio di piani, ma che mi abbiano fucilato prima.

domenica 23 aprile 2006

L'ultimo legionario

Sono morto? No, non ancora, ma ci manca poco. Anche se è ormai notte, quasi vedo il mio petto squarciato da un colpo di daga numidica. E’ un colpo mortale, il veterano cartaginese che me l’ha vibrato sapeva il fatto suo. Probabilmente era uno dei fedelissimi di Annibale già dalle vittorie del Ticino e del Trebbia; forse è uno che ha riso alla disfatta romana sul lago Trasimeno, quando il diavolo cartaginese ha annientato l’intero esercito del console Flaminio. La più totale disfatta romana di tutti i tempi. Almeno fino a oggi qui a Canne. Oggi la vergogna dell’Urbe ha toccato il suo punto più alto.

giovedì 20 aprile 2006

Un tram che si chiama desiderio d'amore

Prima domanda. Che cos’è l’amore? Come e quando si sviluppa questo sentimento? Risposta: Boh.
Seconda domanda, non è possibile che l’amore sia qualcosa di diverso da ciò che si intende normalmente? Cioè che con troppa faciloneria si chiami amore ciò che non è tale? O che si consideri appartenere a questo sentimento superiore qualsiasi emozione sessuale di una qualche forza che dovrebbe essere interpretata in maniera diversa? La risposta è sempre Boh.
Terza e ultima domanda, qualunque cosa sia l’amore io l’ho mai provato? Terzo, ultimo e fragoroso Boh.

Mi è venuto l’impulso di scrivere questo post mentre commentavo gli articoli di alcuni amici del blog. Mi sono accorto che sentenziavo qui e là sul principe dei sentimenti, che rilasciavo pretenziose e articolate disamine condite talvolta di dettagli pseudoscientifici e ambiziose considerazioni filosofiche. In qualche caso la mia immodestia mi ha portato a illudermi, temo, di essermi trasformato in un piccolo guru dei sentimenti. Poi però sono stato folgorato da un pensiero inquietante: ma io sono mai stato innamorato?
Naturalmente dopo aver fatto questa congettura ho riso pensando di essere vittima di uno dei tanti attacchi dello spirito tra l’abbacchiato e il cinico che mi accompagna di recente. Che cavolo di domanda è questa? mi sono detto. Certo che sono stato innamorato. Tutti sono stati innamorati nella vita. E’ matematico. E’ lapalissiano. Basta accendere la televisione e ti trovi di fronte a talk-show in cui ogni partecipante dà l’idea di essere stato vittima di Cupido diverse dozzine di volte nell’ultimo mese (si trattasse pure del corto febbraio). Se poi si considera il periodo di un anno, quegli amori si devono contare considerando cifre con zeri plurimi. Certo che sono stato innamorato, mi sono detto. Anche Calimero piccolo e nero lo è stato, perché io dovrei sfuggire a questa regola generale?

Però questo assurdo interrogativo non ne voleva sapere di abbandonarmi. Ho cominciato a riflettere. Negli ultimi anni ho provato intense emozioni, e sia. Desiderio di una donna. Appagamento dovuto al fatto di sentirsi corrisposti nei propri impulsi sentimentali. Euforia, talvolta. Anche quella potente letizia dell’animo che ti spinge a cantare sotto la pioggia sguazzando nelle pozzanghere.
Ma se tutte queste suggestioni del cuore fossero state qualcosa di diverso dal potente e unico sentimento che qui stiamo analizzando? Se fossero stati solo i figli di un dio maggiore? Se quello su cui ho viaggiato io di recente fosse stato soltanto il famoso tram che si chiama Desiderio? O un autobus che si chiama Passione Sessuale? O addirittura un taxi denominato Surrogato di Amore?

L’ultima domanda che mi sono fatto è stata: ma poi, sto cacchio di amore, che razza di sbobba è? Che sapore ha?
Boh.

martedì 18 aprile 2006

Voglia di avventura

“Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete star certi che qualcosa non va”.
Se qualcuno ricorda un incipit più efficace e suggestivo di questo (si parla di letteratura in generale e non solo di fantascienza) questo è il momento di parlare.

Lessi Il giorno dei trifidi di John Wyndham al tempo del liceo, in un Oscar Mondadori con prefazione di Fruttero & Lucentini. Fui fulminato fin dall’inizio. Provavo quasi un dolore fisico per non poter scorrere le righe più in fretta e ricordo che dovevo faticare per reprimere l’impulso di girare le pagine per vedere come andasse a finire una certa situazione non ancora letta. Il romanzo che lessi apparteneva a un mio compagno di scuola e, per non restituire il prestito, rammento che inventavo continue scuse. Infine quello desistette dai tentativi di rimpossessarsi della sua proprietà, lasciando l’agognato volumetto nelle mie mani (lo risarcii della perdita con un romanzo della trilogia galattica di Asimov).

Breve nota. I miei gusti in fatto di fantascienza si dividevano e si dividono equamente tra due filoni. Quello delle grandi invasioni aliene: organismi di altri mondi, sempre animati da voglia di genocidio o sopraffazione distruttiva, cercano di assumere il controllo del mondo sterminandone gli abitanti. E quello avventuroso-catastrofico, molto in voga qualche decennio fa, tempo di guerra nucleare vista come possibile e forse probabile: l’incuria o la sete di potere degli uomini generano un cataclisma che distrugge gran parte della civiltà e tu (tu lettore che ti identifichi nel protagonista) devi sopravvivere in mezzo a difficoltà di ogni tipo. Il giorno dei trifidi appartiene al secondo filone fantascientifico. Ecco in breve l’inaudito inizio.

Ti svegli una mattina in ospedale. Tutto ti sembra strano. Gli orologi hanno battuto le sette e poi le otto, ma non senti il minimo rumore di traffico. Eppure il tuo ospedale è in una delle strade più rumorose e trafficate di Londra, e sai con certezza assoluta che quel giorno non è domenica.
Hai gli occhi bendati e non vedi niente. Hai subìto un’operazione chirurgica agli occhi (difficile, non sai se continuerai a vedere) e proprio questa mattina aspetti che ti tolgano le bende. Con molte difficoltà raggiungi il campanello e lo suoni e poi lo suoni ancora. Niente. Non viene nessuno. Chiami a tutta voce. Neanche l’ombra di un’infermiera. E intanto ancora nessun rumore di traffico. Cogli ogni tanto scalpiccii confusi e suoni di lamenti lontani. A un tratto capisci che sei solo e che nessuno verrà mai da te.
Sei costretto a prendere una decisione rischiosa. Devi toglierti le bende dagli occhi, anche se ciò potrebbe essere deleterio per la tua vista. Lo fai e ti va bene. La vista è annebbiata, ma poi si schiarisce. Ci vedi ancora.
Vai fuori. Nessuno. L’ospedale è deserto. Hai paura. Sei solo. Nessuno a cui domandare nulla. Percorri stanze e corridoi senza vita. Per le scale incontri finalmente un dottore. Gli chiedi informazioni. Lui ti domanda sorpreso: ma lei ci vede? Strana domanda, ti dici, ma rispondi che ci vedi perfettamente. Ti chiede di aiutarlo a raggiungere la finestra più vicina. Lo fai. L’attimo dopo il dottore a cui hai chiesto informazioni si è gettato di sotto spiaccicandosi in strada (sei al quinto piano).

Esci finalmente in strada e ti rendi conto della tragedia. È capitata una catastrofe che ha reso ciechi tutti gli uomini. A quanto pare sei il solo che ci vede. Londra è in pieno caos. La vita civile non esiste più. Niente polizia. Niente legge. E oltretutto le strade sono invase da creature vegetali di origine aliena, i trifidi, che uccidono con aculei avvelenati chiunque abbia la disgrazia di trovarsi sul loro cammino (perché possono spostarsi).

Ora può iniziare la tua avventura.

domenica 16 aprile 2006

Mandrie di bisonti nella mia stanza


Mezzanotte è passata.
Un frastuono di migliaia di zoccoli che calpestano il grasso terreno della prateria invade la mia stanza. Il pavimento trema. Sono impaurito. Per la prima volta da molto tempo sposto lo sguardo dal monitor lcd del computer. La tastiera lascia a metà l’ultimo svogliato commento ispirato dall’amore perduto dell’ennesima blogghista dal cuore infranto. Il fragore degli zoccoli cresce e si fa rimbombo di tuono. Ora tremano anche il tavolo portacomputer e i doppi vetri delle finestre anodizzate. Quasi nello stesso tempo folate di vento odoroso di pioggia piombano tra le quattro pareti spoglie in cui sono prigioniero.

Mi alzo in piedi nell’attimo esatto in cui migliaia e migliaia di bisonti irrompono nel mio angusto mondo, distruggendo il computer e le quattro librerie gonfie di volumi economici. E’ un mare impetuoso di animali mugghianti che travolge ogni cosa, ma che per qualche motivo risparmia il letto su cui mi sono rifugiato per scampare all’impazzimento del mondo. I bisonti passano e passano. E’ un treno vivente di cui non si scorge la coda. Nello stesso tempo noto che i muri della mia stanza, annientati dalla violenza dell’assalto animale, sono spariti. E’ sparito pure il soffitto. Lo sguardo adesso è libero di vagare intorno senza ostacoli di sorta.
Sento la bocca atteggiarsi a un sorriso inspiegabile stimolato da emozioni ataviche. Sono immerso in un mare d’erba senza fine. Dovunque mi volti praterie fluttuanti si estendono fino all’orizzonte lontanissimo. Niente palazzi o segni di civiltà. Nessun rumore di traffico, solo il fischiare del vento e il veemente rombo degli zoccoli dei bisonti.
Laggiù un torrente con fresche acque. Ancora più lontano una traccia di fumo che sembra attestare una presenza umana.

Ecco finalmente qualcuno. Un calesse avanza su un tortuoso sentiero mal tracciato. Tiene le redini un uomo anziano con un cappello da cow-boy, affiancato da una ragazza con i capelli del colore del grano maturo. Quando il calesse passa nel punto più vicino alla mia stanza senza muri e alla mandria animale che tuttora calpesta il mio pavimento, la ragazza con i capelli color del grano mi sorride in un modo inequivocabile.
Sobbalzo sul mio letto sfatto. Appena i bisonti saranno passati, andrò alla fattoria della ragazza, deve essere nel punto da cui proviene il fumo, e vedrò se mi sorride ancora. Mi serve solo un cavallo sellato, ma sono sicuro che lo troverò al più presto.

Sento uno squillo acuto. Mi accorgo che il sorriso si attenua e poi scompare. Lo squillo acuto e sgradevole si ripete, uccidendo quel che resta del mio sorriso e spazzando via la mandria di bisonti dalla mia stanza spoglia. Il terzo e ultimo squillo annienta gli orizzonti lontani e le praterie sterminate. L’ultima cosa a sparire sono i biondi capelli della ragazza sul calesse.
L’antivirus ha completato la scansione del disco fisso. Tempo: nove minuti e quarantadue secondi. Una scritta sul monitor mi avverte: “Complimenti, non sono state riscontrate minacce sul vostro computer!”.
Si è fatto davvero tardi, è ora di andare a dormire anche se non ne ho voglia.

mercoledì 12 aprile 2006

Emma credeva nell'amore a prima vista

Emma credeva nell’amore a prima vista.

Ci credeva con tutta l’anima. Credeva che due persone potessero incontrarsi un giorno e guardarsi, non occorreva parlare, frequentarsi o conoscersi, anzi lei considerava questi dettagli del tutto irrilevanti. Era sicura che queste due persone, una volta guardatesi, sarebbero rimaste innamorate per tutta la vita. Per tutta la vita. Anche se non si fossero più viste da quel giorno, cioè da quello sguardo.
Emma era la mia professoressa di italiano delle scuole medie.

Era una donna fatta di puro acciaio. Intimidiva qualsiasi individuo adulto sul suo percorso, dai bidelli al preside, ai genitori venuti a colloquio. Non era sposata. Era zitella quando la parola single non esisteva. Credo ne soffrisse, anzi ne sono certo. Sapeva di essere una donna mille volte più appassionata, intelligente e bella dentro della pur ammiratissima coscialunga professoressa di inglese. Sapeva che avrebbe potuto rendere un uomo mille volte più felice di quello che regalava pellicce costose alla professoressa di matematica. Però forse era la prima a capire che i maschi, soprattutto quelli virili e maledetti che lei adorava, i Darcy allontanati dal suo orgoglio e dal loro pregiudizio, erano intimiditi da lei.
Il suo tempo non era questo. Era il Romanticismo del primo Ottocento. Si sarebbe trovata a suo agio in qualsiasi romanzo di Jane Austin. Cime tempestose? Lei era cima ed era tempestosa allo stesso tempo. Il suo habitat? Sedersi in un salotto letterario in cui criticare il principe di Metternich insieme con poeti romantici e nobili pasionarie del Risorgimento.

Conosceva l’Iliade dal primo verso all’ultimo e ce ne faceva leggere brani anche contravvenendo al programma scolastico. Non si stancava di decantare la traduzione di Vincenzo Monti e si coloriva in viso e diventava perfino bella, lei che non lo era mai stata, quando ci magnificava la mirabile costruzione sintattica dei brani in cui si parla dell’armatura di Achille o del coraggio inenarrabile di Ettore che va alla morte. Amava di un amore che non conosceva freni tutto il ciclo cavalleresco, dalla Chanson de Roland alla saga della Tavola Rotonda (quando citava Parsifal, le luccicavano gli occhi). Adorava Wagner e talvolta ce lo faceva ascoltare in classe, con un vecchio grammofono e un 33 giri che forse di giri ne aveva il doppio. Sigfrido e Brunilde? Erano i suoi più cari amici. Shakespeare, Eloisa e soprattutto Tristano e Isotta? Di sicuro li incontrava nei suoi sogni.
Amava i grandi uomini della storia. I condottieri, i letterati, i musicisti. Napoleone sopra ogni cosa, ma anche Cesare, Manzoni, Foscolo. Annibale, che aveva tenuto in scacco quasi da solo il più agguerrito esercito della storia. Se poi questi grandi uomini avevano avuto pure una vita tormentata, amori potenti e sfortunati, allora lei li adorava.
Lei non insegnava materie scolastiche, ci comunicava emozioni allo stato puro. Ci insegnava a vivere. Aveva un tale ascendente su alcuni di noi che un giorno scrissi una ventina di fitte pagine per un compito facoltativo (dovevo essere in seconda media) sul ciclo dei cavalieri di re Artù.

Eppure il ricordo che mi rimarrà di questa donna eccezionale è legato a un episodio speciale. Giorno di interrogazioni e due ore di italiano continuative per attuarle. Io non ero preparato e secondo i miei calcoli ero il primo della lista di vittime da chiamare alla cattedra. Speranze di sfuggire all’interrogazione, trattandosi del sergente di ferro Emma? Nessuna. Speranze di cavarsela imbrogliando e cianciando alla come ti viene? Nessuna, trattandosi di Emma. Non c’erano trucchi o santi a cui votarsi. Bisognava solo aspettare la fine. La vergogna. L’onta estrema. Io ero uno dei suoi allievi preferiti. Avrei preferito la morte al farmi pescare a balbettare banali scuse in sua presenza.
Eppure quel giorno avvenne il miracolo. L’Onnipotente ebbe pietà di me o la ebbe questa splendida e sfortunata creatura che Lui aveva generato in uno dei suoi momenti migliori. Quel giorno Emma si mise a parlare dell’amore a prima vista. Lo spunto era dato da chissà quale poesia trecentesca su una dama che un giorno incontrava un cavaliere che amò per tutta la vita in seguito a uno sguardo incendiario. Emma la Figlia dell’Amore tirò fuori tutto il suo repertorio, quel giorno. Tutto il ciclo cavalleresco, tutta l’epica omerica e Wagner e Sigfrido e il cuore virtuoso di Parsifal. Tirò fuori tutto l’amore infinito e purissimo che aveva dentro e ne aveva tonnellate più di ogni altra persona a questo mondo.

Passarono le due ore senza che io dovessi affrontare l’onta dell’impreparazione.
Passarono molti molti anni senza che io scordassi le appassionate parole della Figlia dell’Amore a Prima Vista.

martedì 11 aprile 2006

Pregherò


Atto di fede
Mio Dio, perché sei verità infallibile, credo tutto quello che hai rivelato e anche che mi darai la forza di non parlare, magari banalmente come spesso si vede fare in giro, di politica e di elezioni.

Atto di carità
Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, per amore Tuo perdono le offese ricevute sentendo un mucchio di rimbambiti cianciare di politica come se fossero Winston Churchill che critica Neville Chamberlain dopo il patto di Monaco.

Atto di speranza
Mio Dio, spero dalla tua bontà, di meritare la vita eterna per le mie buone opere e perché in questi giorni tristi ho trovato la forza di non pronunciare mai il nome di nessuno dei leader del centrodestra o del centrosinistra, né di dire ad alcuno “tu sei un cretino perché voti così”.

Gloria al padre
Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, per avermi sottratto alla tentazione di sentirmi intelligente e forse pure geniale per aver votato un certo schieramento politico piuttosto che un altro.

Angelo di Dio
Angelo di Dio, che sei il mio custode, illuminami e custodiscimi, reggi e governa la mia scelta di non blablare sugli exit poll o di esultare per uno zero virgola zero zero uno per cento di voti di scarto.

Amen.

lunedì 10 aprile 2006

Il punto esclamativo femminile


Ragazzi, vogliamo affrontare la delicata questione dei punti esclamativi femminili?
Prima pedestre riflessione. Il punto esclamativo rilasciato da una mano femminile ha una diversa valenza espressiva da quando quello stesso segno di interpunzione è siglato da un soggetto maschile (e quasi sempre favorisce sensazioni e suggerisce significati diversi). Esso ha la forza di suscitare nella controparte maschile stati d’animo quasi sempre lieti e spesso gioiosi inducendo la mente alla libera fantasticazione.

Vediamo alcuni scenari contrappuntati da questo segno di interpunzione.
La mano femminile scrive un “Ciao” nudo ed essenziale. Il vocabolo è interpretato come la formula di saluto che effettivamente è.
La mano femminile scrive “Ciao!” accompagnando il termine col segno grafico di cui si parla. Qui la mente virile soggiace a un’esitazione amletica. Nota che il punto interrogativo conferisce molta più forza espressiva alla sobria formula di saluto e non può fare a meno di chiedersi se sia stato lui, con la sua simpatia e il suo fascino, talvolta bistrattati ma pur sempre notevoli, a suscitare quella maggiore enfasi letteraria.
L’elegante mano muliebre digita “Ciao!!” E qui i punti esclamativi sono ben due. Nessun cervello maschile può restare indifferente a questa circostanza, giudicandola inusuale e senz’altro portatrice di reconditi significati subliminali, che tuttavia si ha timore di interpretare nella loro massima estensione. Due punti esclamativi non possono essere frutto del caso. Ma devono contenere un messaggio, magari più facile da decrittare di un geroglifico egiziano. Dopo potenti conflitti interni, si riflette che comunque le tastiere di computer hanno la brutta abitudine di castigarti se esiti per qualche centesimo di secondo su di esse.

E siamo al “Ciao!!!!!!!!!!!!!!” Qui in punti interrogativi possono variare da tre all’elevazione all’ennesima potenza. La suddetta è una costruzione sintattica che mette in sommovimento tutto l’essere mascolino. C’è già la primavera che ti mette in fibrillazione, facendoti immaginare cose senza capo né coda. Ora l’alleanza letale tra la bella stagione e il reiterato punto esclamativo femminile ottiene l’effetto di scardinare l’equilibrio interno faticosamente raggiunto. Quindi mediti se non sia il caso, dopo quella messe di segni di interpunzione, di mandare una e-mail all’audace collega virtuale (calamità da evitare in ogni modo perché si incorrerebbe in una risposta cupa, formalissima, con accenni a tragedie familiari e traumi infantili che solo di recente si cerca di superare).

Dalla nostra valutazione, possiamo dunque estrapolare il consiglio all’universo femminile di rilasciare con moderazione l’uso di questo vigoroso segno di interpunzione, onde non peggiorare la condizione esistenziale della controparte sessuale.

mercoledì 5 aprile 2006

Enrichetta ti amerò

Correva l’anno 1971 quando vedeva luce lo stupefacente film, piccolo e insuperato gioiello di eleganza, E’ ricca, la sposo, l’ammazzo, con Walther Matthau nel ruolo di Henry Graham e Elaine May in quelli di Enrichetta Lowell. Regia della stessa May, la quale è stata anche sceneggiatrice della pellicola.

Due parole su Matthau e sulla trama. In questo film Matthau è ai suoi apici interpretativi, scontroso e amorale, trasandato e orso, sempre in rotta di collisione con perbenismo e buoni sentimenti. E’ l’assoluto mattatore del film. Snocciola battute a ritmo forsennato, ben coadiuvato dai riusciti personaggi che lo assecondano, prima di tutto il meticoloso maggiordomo Harold, poi il ricco e rapace zio, l’avvocato corrotto di Enrichetta e tutta l’accidiosa servitù al completo della miliardaria pasticciona, tra cui spicca la volgare governante signora Traggert.

È importante ricordare anche il doppiaggio di questo film, che a mio modo di vedere ha ulteriormente migliorato la storia (i nostri doppiatori sono in alcuni casi dei mostri di recitazione). Gianrico Tedeschi presta la voce a Matthau conferendogli tutte le sfumature interpretative acquisite in anni passati a calcare scene teatrali. L’insuperato Ferruccio Amendola, padre di Claudio, doppia il corrotto avvocato McPherson; il mitico Carlo Romano, già doppiatore di Jerry Lewis e del detective fumettistico Nick Carter, si occupa dell’avido zio Harry. Colei che presta la voce alla candida Enrichetta, pur bravissima, è l’unico nome della compagine che non conoscevo, ossia Flaminia Jesolo.

La trama. Henry Graham, miliardario caduto in disgrazia, deve assolutamente sposare un’ereditiera per sfuggire ai creditori che lo accerchiano. La sua scelta cade sulla miliardaria pasticciona, esperta di botanica, Enrichetta Lowell. Henry progetta di uccidere al più presto la poco desiderata moglie in modo da ereditarne le sostanze e continuare la dispendiosa e farfallesca vita di sempre. Tuttavia alla fine ci ripensa lasciandosi soggiogare dall’amore.

Alcune tra le moltissime battute del film (me lo sono rivisto per appuntarmele). Vi consiglio di leggerle.
“E’ morto col patrimonio intatto?” Matthau rivolto a un suo amico miliardario, chiedendo informazioni sul padre di Enrichetta, mentre la suddetta, più maldestra che mai, versa tazze di tè su tappeti costosi.

“Madame, la sua ossessione erotica per questo tappeto è da compatire”. Il protagonista, versando la sua tazza di tè sul solito tappeto mentre la padrona di casa fa una ramanzina alla candida Enrichetta che già si è sbrodolata ben bene.

“Sono venuta con l’autobus”. L’ultra-ultra ricchissima protagonista, quando Matthau le dice che può mandare via la macchina (tutti si immaginano che viaggi almeno in Rolls Royce), dato che l’accompagnerà lui a casa.

“Buongiorno, signore, le rimangono esattamente sette giorni e nove ore prima dell’indigenza.” L’impagabile maggiordomo Harold al disperato Matthau che non trova moglie per sanare i suoi debiti.

“Il moscato extradolce della ditta Moghen di Malaga con soda e succo di arancio amaro.” Enrichetta descrive la sua bevanda preferita al disgustato pretendente (quel vino è una vera schifezza).

“Studiati il capitolo sulla classificazione degli esperimenti di Mendel.” Matthau al domestico Harold (ci sono pochi giorni per conquistare la ricca ereditiera e bisogna padroneggiare la sua sfera di interesse, che è la botanica).

“Enrichetta, la sola differenza tra noi è che io sono un uomo e tu una donna. E questa non dovrebbe essere una difficoltà se stiamo ragionevolmente attenti.” Matthau dovrebbe fare la dichiarazione d’amore, ma la lingua si rifiuta di assecondarlo.

La scena in cui il protagonista pulisce con un fazzoletto la bocca dell’imbranatissima partner prima di baciarla.

La scena in cui le risistema la camicia da notte alla greca la prima notte di nozze (Enrichetta aveva infilato la testa nel buco del braccio).

“La signora ha una servitù estremamente democratica.” Il maggiordomo Harold al suo datore di lavoro che chiede perché lo chauffeur della sua novella sposa non è venuto a prenderli all’aeroporto (si scoprirà poi che lo chauffeur si sta spupazzando una cameriera infingarda quanto lui).

“Se non sparisci da questa casa e dai terreni circostanti entro 45 minuti, io ti sparo in qualità di intruso con dimostrate intenzioni criminali.” Matthau allo chauffeur nullafacente e ladro. E’ in corso una festa in cui è presente anche il resto della servitù nullafacente e ladra della fin troppo permissiva Enrichetta. Il nuovo padrone di casa spara in aria un colpo di avvertimento.

“Mi sono preso io la libertà, signore.” Harold informa il suo principale che ha provveduto lui a tagliare il cartellino del prezzo dal nuovo abito di Enrichetta, fugando i di lui timori che la novella sposa se ne andasse in giro mostrando etichette varie sul vestiario (lo ha fatto varie volte nel film).

“L’ho chiamata Alsophila Grahamy.” La felce tropicale scoperta dalla maldestra ereditiera durante la sua luna di miele. E’ una specie mai catalogata e lei le ha dato il nome del marito.

“Henry, avrai sempre tutte queste attenzioni per me?” “Temo proprio di sì”. Matthau, tornando sulla sua decisione di affogare la novella moglie si è buttato nella corrente impetuosa del fiume e ha riportato Enrichetta a riva.

“Vieni, adesso è meglio tornare.” Ultima battuta. I due protagonisti si tengono per mano e si allontanano in un paesaggio naturalistico di rara bellezza. L’orso Matthau si è quasi trasformato in un tenero innamorato. Enrichetta, lungi dall’essere la bruttina descritta per tutto il film, col corpo bagnato d’acqua è bella e desiderabile.

Enrichetta ti amerò per sempre.

domenica 2 aprile 2006

Vita da star


Le stelle sono forse i soli oggetti astrali che attraversano fasi evolutive che richiamano alla mente la vita. Dopo il primo momento di aggregazione della materia, le forze gravitazionali fanno sì che a un tratto si “accenda la luce” e l’avventura cominci. Qualsiasi stella attraversa una sequenza principale, quella in cui irradia luce ed energia, che si interrompe dopo un tempo variabile a seconda dei casi in seguito a eventi sempre catastrofici e spettacolari. A quel punto, seguendo modalità diverse il corpo astrale si spegne e si raffredda sempre di più. Se la sequenza principale della stella può richiamare alla mente l’idea della vita, la fase dello spegnimento fa pensare senza dubbio alla morte. Nessuna stella morta (spenta) può tornare alla vita (e di conseguenza alla luce e ai fenomeni nucleari che la producono) se non assume nuova materia modificando il proprio equilibrio gravitazionale e la propria riserva di combustile nucleare.

Ma se, usando un linguaggio un po’ libero ma suggestivo, una stella nasce, vive e muore, quanto è lunga quella vita? E’ forse un’esistenza che ha una durata uguale per ogni singolo corpo astrale?
La risposta è che non tutte le stelle hanno una permanenza nella sequenza principale uguale. Come gli uomini, alcuni di quei corpi celesti muoiono quando per così dire sono ancora nella culla (si parla comunque di tempi astronomici), altri arrivano a essere così longevi da sembrare immortali.
La vita di una stella e dunque la sua capacità di irraggiare luce ed energia è data dal combustibile nucleare di cui è dotata (atomi di idrogeno compressi dall’immensa pressione gravitazionale vigente all’interno di quei macroscopici corpi celesti). Quando la stella ha consumato la maggior parte di quel combustibile - cioè quando le esplosioni nucleari tipiche del nucleo stellare non riusciranno più a controbilanciare la pressione immane proveniente dalla materia attratta verso il centro gravitazionale - l’avventura celeste giunge alla fine.

L’idea che ci si può fare, dato che abbiamo parlato di carburante, è che il tipo di astro in questione possa “funzionare” più a lungo se ha una riserva di carburante più grande di un’astro simile (così come un’automobile rimane attiva più o meno a lungo a seconda che abbia il serbatoio pieno o sia in riserva).
Una stella che abbia più carburante, cioè più atomi di idrogeno da bruciare nelle combustioni del caldissimo nucleo, è una stella più grande: tutti i corpi di questa natura sono composti in massima parte da idrogeno e se hai una massa più grande significa che disponi di più riserve di idrogeno. Quindi una stella con massa maggiore dovrebbe anche avere una durata di “vita” maggiore.
Purtroppo è sbagliato. Perché, pur essendo vero che stelle con massa maggiore hanno più riserve di idrogeno da bruciare nelle combustioni nucleari, è anche vero che esse per una combinazione di maggiore gravità e pressione consumano l’idrogeno con un ritmo molto superiore alle loro pur grandi dimensioni.
C’è l’esempio di una stella di classe spettrale O5 (le classi spettrali sono un metodo utilizzato dagli astronomi per catalogare le stelle in rapporto alla loro temperatura). Essa pur avendo una massa solo 32 volte superiore al nostro Sole consuma idrogeno con un ritmo fino a 10 mila volte superiore (ciò è dovuto al fatto che qui la temperatura interna può raggiungere i 100 milioni di gradi contro i soli 15 del nostro Sole, accelerando quindi di gran lunga i fenomeni di fusione nucleare). Ne consegue che stelle di questa natura (oggetti molto rari, perché nell’universo vige la regola che il piccolo è molto più diffuso del grande) hanno una vita, una permanenza nella sequenza principale di solo un milione di anni… Il nostro Sole al contrario irradierà luce per almeno dieci miliardi di anni.

All’opposto una stella della classe spettrale M5 (massiccia solo un quinto del nostro Sole) consumerà così lentamente il suo combustibile nucleare che la sua esistenza può calcolarsi intorno al valore di 200 miliardi di anni. Di conseguenza nessuna stella delle classi spettrali K o M, le quali costituiscono l’87 per cento del totale, ha avuto la possibilità di consumare il suo combustibile nucleare nei circa 15 miliardi di anni che ci dividono dal big bang.
Ci sarebbe da aggiungere che il canto del cigno delle stelle, il momento che precede l’inizio della loro fine in quanto oggetti luminosi, è sempre catastrofico e in qualche caso (vedi le esplosioni inaudite delle supernovae) apocalittico. Ma questo potrebbe essere materia di un successivo post.