martedì 30 maggio 2006

La scelta di Emma - prima puntata


Prima puntata
“Scegli!” Emma sobbalzò nel vicolo rischiando di far cadere la copia dell’Iliade che leggeva come faceva di solito nel tratto di strada da scuola a casa.
Si voltò intorno, ma il vicolo, caso strano, era deserto. Per un attimo pensò che la voce udita appartenesse a uno degli studentelli scostumati a cui cercava di insegnare, se non l’italiano e la storia, almeno le buone maniere. Eppure in giro non si vedeva nessuno di quegli sciagurati. E soprattutto non echeggiava nessuna delle offese con cui la bersagliavano di nascosto, le più fantasiose delle quali erano insulsaggini come zitella, scorfano o mummia.
Scegli, Emma!” Stavolta lei tremò tanto che il volume omerico precipitò sul selciato lurido del vicolo. La voce era molto più forte e inquietante. Pareva provenire da nessuna direzione e da tutte e, soprattutto, pareva emessa da una gola disumana.

Fuggire a gambe levate? L’avrebbe fatto se la paura o meglio il panico non l’avessero pietrificata. Infilò una mano nervosa nella borsa. Ma le uniche armi con cui fronteggiare un’aggressione erano un testo sull’epica cavalleresca carolingia e un saggio sulla letteratura romantica.
“Scegli, Emma!” La voce ormai aveva la potenza vocale di un coro di valchirie wagneriane. Eppure, benché quelle parole fossero probabilmente udibili fino a piazza Plebiscito e alla Galleria Umberto I, il vicolo continuò a restare deserto.
A quel punto Emma si avvide che le stranezze di quel giorno non erano finite. Sul muro del vicolo era apparsa una porta verde che si stagliava sulle pietre ingrigite dal tempo. Udì strani e ripetuti suoni provenienti dalla porta, anche se sapeva che dietro quel muro c’era solo un edificio fatiscente abbandonato da decenni. Prima ancora di rendersene conto, capì di aver coperto i pochi passi che la separavano dal vistoso battente verde e di aver abbassato la maniglia di ottone lucido. Le ci volle qualche secondo per abituarsi al cambio di luminosità. Ma sapeva che non sarebbe bastata una vita intera per superare lo shock di quanto vide.

La porta nel vicolo dava su una strada del tutto invasa da carrozze e carri di ogni foggia. C’erano calessi, carrette piene di ortaggi, e la velocità di ogni singolo veicolo sembrava proporzionale al suo lusso e alla sua eleganza. Più lontani, uomini a cavallo avvolti in sgargianti uniformi antiquate. Nessuna automobile in vista per quanto si aguzzasse la vista.
I marciapiedi erano percorsi da gente in abiti antichi. Le donne indossavano cappellini piumati all'apparenza antecedenti alla salita al trono della regina Vittoria; e mostravano vite e busti esilissimi che sormontavano ampie gonne gonfiate da crinoline. Gli uomini avevano cappelli di forma cilindrica e redingote a doppio petto. Alcuni si appoggiavano con eleganza a bastoni dal pomello d’oro o d’argento. L’aria era percorsa da richiami di ogni genere di venditori, dalle merlettaie agli acquaioli ai caldarrostai.
Eppure la cosa più impressionante di tutte, si accorse Emma guardandosi, era ciò che capitava a lei stessa. Per osservare meglio, si era sporta. La metà del suo corpo situata nel mondo con le carrozze e i cappelli a cilindro era abbigliata con un vestito d’epoca, aderentissimo sul busto, con la sottana gonfia fino all’inverosimile e una corta mantellina che copriva l’ampia scollatura apparsale in questa sua mezza figura. La parte di lei rimasta nel vicolo era vestita con la solita tenuta zitellesca da professoressa di italiano delle scuole medie appassionata di classici.

Udì per l’ultima volta la stentorea voce che faceva vibrare il fondo stradale. “Devi scegliere il tuo mondo, Emma. O di qui o di là. Dopo non potrai più tornare indietro. Fa' la tua scelta."
Emma era confusa. Negli ultimi minuti aveva visto cose che avrebbero fatto vacillare menti più salde della sua. Però di un fatto era certa. Alle sue spalle la aspettava il solito appartamento avvilente in cui avrebbe dovuto mangiarsi la cena da sola guardando gli ultimi disastri trasmessi dal telegionale. Davanti a lei c’era un mondo pieno di colori come non ne hai mai visti, percorso da voci fresche e allegre. E Dio mio, quanti, quanti profumi nell'aria! Non pensava che potessero esistere odori tanto intensi e variegati.
“Quale scelta?” disse varcando la porta verde e sentendo chiudersi l’uscio alle spalle. L’attimo dopo si incamminava sorridendo sul marciapiede sistemandosi l’ampia gonna e il nastro sottogola del suo cappellino d’epoca.

Inizio qui una storia in quattro puntate, sulle avventure di Emma nell'Ottocento. Il prologo a questo mio racconto potrebbe essere considerato il post intitolato “Emma credeva nell’amore a prima vista.

venerdì 26 maggio 2006

Il primo commento al post


Hai finito di scrivere il post. Una faticaccia, perché ci tieni a scrivere qualcosa che valga la pena di leggere. Insomma, ci tenti.
Lo hai visionato e revisionato più volte. Lo hai editato neanche fossi il figlioccio di un correttore di bozze del New York Times. Lo hai snellito eliminando un po’ di proposizioni secondarie. Modificato l’aggettivo taldeitali perché stecca con il successivo verbo o sostantivo. Hai dato la caccia a tutte le frasi e le parole inutili con la rabbia di un ghostbuster in un castello scozzese.
E il titolo. Vogliamo parlare del titolo? Ne hai cambiato almeno tre, dando fondo ai tuoi migliori riferimenti cinematografici e letterari, finché hai trovato quello che fa al caso tuo, abbastanza corto e con il fascino di una dark lady del noir classico.

La fotografia? Mica hai preso la prima che ti è capitata sotto mano! Ti sei procurato un’immagine efficace, colorata o suggestiva come un Charlie Chaplin d’annata. Però è troppo grossa. La devi editare con un programma grafico per farla rientrare entro il limite di 60 K ammesso dal blog. Magari sarebbe opportuno pure tagliarla e modificare il contrasto e il colore per renderla più incisiva.
Tutto a posto? Ancora un’altra revisione non ci sta male. Nessuno ha mai scritto niente di perfetto, vuoi che ci sia riuscito questo insignificante scrittore di post da blog? Sposti qualche virgola, cancelli qualche infausto avverbio che finisce in “mente”, inserisci qualche voce verbale più efficace. Insomma ritocchi qui e rifinisci lì e poi ti dici che è fatta. Lo pubblichi.

Ora viene la parte delicata. L’attesa. Aspetti qualche minuto e torni sul luogo del delitto. Il tuo post è invitante, ma la voce sui commenti è ancora ferma a zero.
Certo che è ferma a zero. Sono passati pochi minuti, nemmeno Speedy Gonzales avrebbe fatto in tempo a inserire qualche osservazione in fintomessicanese.
Lasci passare mezz’ora e poi un’ora. Niente. Ora sei un pizzico inquieto. Ma è ancora troppo presto. E che sarà mai? E’ o non è domenica? Ci sono le code sull’autostrada. Tutti sono a svagarsi dopo una dura settimana di lavoro, mica vogliono bivaccare sul blog pure nel giorno del Signore? Pazienza, amico mio.
Però già qualche dubbio comincia ad arrovellarti. Forse il mio post non piace, ti dici. Il tema è deboluccio. Il mordente fiacco. Il titolo, la foto? Bartali aveva ragione: l’è tutto da rifare. Magari faccio ancora in tempo a sostituire questo post con uno più allegro che tenevo di riserva perché mi pareva troppo cretino.
La clessidra scorre inesorabile. Forse, cominci a chiederti, è in atto un complotto contro di te. Forse tutti hanno deciso di voltarti le spalle nello stesso momento. Se non succede qualcosa nell’immediato, decidi disperato, devi tentare la carta estrema. Il primo commento te lo scrivi da solo. L’hai sempre giudicata una cosa scorretta e umiliante. Però se vedi ancora per cinque minuti quello zero avvilente, ti verrà la peggiore depressione degli ultimi anni e dovrai spendere un patrimonio in analisti per fartela passare.
Ormai ti sei già scritto il primo commento, una risposta rivolta a un tizio sconosciuto e anche un pochino antipatico, autore sette od otto post fa di una domanda non brillantissima. A quel punto apri il tuo blog e…

Allucinazione? Sogno o son desto? Ho le traveggole?
No, il miracolo si è avverato. Le tue preghiere sono state esaudite. Dove c’era un desolante zero ora campeggia un rassicurante e gioioso uno. Sì, è un UNO quello sul monitor. Oh, gioia. Oh, letizia. Oh, miracolo. Campane suonate a festa.
Ti catapulti a leggere il segno lasciato dal buon samaritano che ti ha risparmiato almeno trenta sedute di psicanalisi postfreudiana. Lo baceresti, quell’individuo misericordioso, e gli offriresti il miglior caffè della città, anche se il commento che ti ha lasciato è un Ciao o un Che Bel Blog Hai. Lo abbracceresti come il figliol prodigo anche se ha la scarsa eleganza di suggerire di passare a trovarlo. Lo culleresti come un bambino pure se avessi la certezza assoluta che non ha letto manco una virgola del tuo post (né di tutti gli altri post che commenta).
Gli altri commenti? Sono i benvenuti, ma ormai già sai che quaggiù qualcuno ti ama.

domenica 21 maggio 2006

La fine dei sogni


Ero al secondo anno di liceo, potevo avere quindici anni, forse di meno. Amavo i fumetti Marvel e ne possedevo parecchi, ma a causa dei limiti delle mie tasche quella collezione denunciava parecchie assenze. Giocavo in una squadra di calcio di amici. Era per così dire una squadra intersociale. C’erano alcuni liceali come il sottoscritto, visti più o meno come studentelli “borghesi” (io e soprattutto le mie tasche di borghese non avevamo niente, ma era così che, in un certo ambiente periferico napoletano, venivano percepiti i ragazzi che studiavano alle superiori). E c’erano altri ragazzi che a scuola non ci andavano e forse non c’erano mai andati.

Ne ricordo uno in particolare. Si chiamava Rosario, era il centravanti della nostra squadra e palla al piede non aveva rivali. Un piccolo campione. Rapido, sveglio, dribblava anche le pietre. Rosario aveva una particolarità, oltre al fatto di non andare a scuola e di lavorare credo in nero (e forse di aver avuto qualche precedente penale). Era già sposato, anche se non poteva avere molto più di diciotto anni. Aveva fatto quello che dalle mie parti si chiamava “il guaio” e aveva dovuto rimediare per non incorrere in qualche pallottola distrattamente esplosa dai familiari della sua ragazza.

Un giorno venne a sapere della mia passione per i fumetti Marvel. Disse che aveva un sorpresa per me. Mi portò a casa sua e mi mostrò, nel suo scantinato, un autentico tesoro sotto forma di fumetti. C’erano quasi tutti gli albi della Marvel in ottime condizioni, tutti i primi numeri di Devil e dell’Uomo Ragno, avventure di Silver Surfer che mi mancavano, albi inseguiti dovunque e mai trovati nemmeno dai rivenditori di fumetti più forniti. Mi disse che li doveva vendere, e lo disse con un’ombra sul viso. Accennò vagamente al fatto che non aveva spazio in casa e fece anche intendere che non stava bene che un uomo sposato si dedicasse ancora a letture da ragazzini. Rosario era triste, quel giorno.

Accorgendosi del mio entusiasmo senza frontiere, ridusse ancora il prezzo con cui mi cedeva quell’autentico tesoro. Era un prezzo così basso da somigliare a un regalo. Ricordo che dovetti servirmi di diversi sacchetti dell’immondizia (gonfi fino all’orlo) per portarmi via quel patrimonio fumettistico, non c’erano altri contenitori adeguati. Ero felice. Sprizzavo di gioia mentre stringevo tra le mani il mitico numero uno dell’Uomo Ragno e poi tutti i primissimi Devil e i Thor, quelli con le pagine a colori alternate alle pagine in bianco e nero. Almeno otto dei primi dieci albi dei Fantastici Quattro, e quasi tutte le storie disegnate da Steve Ditko per quello che sarebbe diventato Spider-Man. Non riuscivo a trattenermi e di nascosto ogni tanto dovevo aprire uno dei primi Devil per ammirare la stupefacente storia in cui Silver Surfer affrontava un irato Thor dardeggiante lampi asgardiani. Desideravo sapere chi avrebbe vinto quello scontro epico, ma non osavo aprire le ultime pagine dell’albo per non rovinarmi la lettura a casa. Le insuperabili tavole di John Buscema non facevano che rendere più dolorosa la mia rinuncia.

Ero felice, ma l’ultima volta che vidi Rosario quel giorno divenni triste. Vidi il suo volto malinconico di uomo maturo, di uno che la vita ha obbligato a smettere di sognare. Lo vidi a casa con la sua giovanissima moglie (una ragazzina) ad aspettare il bambino che tra non molto lei avrebbe messo al mondo. E vidi l’invidia con cui osservava la mia contentezza. Davanti a me c’era un vecchio di diciotto anni. Il volto di Rosario quel giorno mi tolse molta della mia gioia.

sabato 20 maggio 2006

Coccodrilli bianchi


Noi siamo i coccodrilli bianchi. Viviamo nelle fogne maleodoranti delle grandi città. Nel buio e nell’oscurità ci cibiamo di ratti sguazzando nella merda. Qui ci masturbiamo e qui sogniamo sogni senza colori. Il sole non lo abbiamo quasi mai visto e a questo punto ci brucerebbe la pelle. La sola musica che conosciamo è quella dello scolo dei liquami vomitevoli che ci eruttate addosso ogni giorno. Il solo amore che abbiamo è quello per il fetore di carne morta che emaniamo. La gioia? Quella un giorno verrà. E’ sicuro.
Il nostro mondo è l’opposto del vostro, stupidi umani con le carte di credito e il Rolex al polso. Delle volte ascoltiamo le oscene risate provenienti dal mondo ipocrita in cui vi muovete. La merda e la piscia che ci riversate addosso dalle condutture fognarie non ci fanno niente, ma le vostre immonde risate ci fanno vomitare.
Vi odiamo. Odiamo le vostre cazzate sull’altruismo parolaio e le ciance sul modo politicamente corretto di pulirvi il culo da riccastri inutili. Vi vogliamo morti. Tutti quanti voi che ridete mentre ci pisciate addosso. Vi vorremmo qui, accanto a noi in queste cloache senza luce, e vorremmo sentirvi squittire come i sorci che siete mentre affogate in questo letamaio senza fine.
Delle volte alcuni di noi coccodrilli bianchi salgono in superficie di notte. Ne fanno fuori qualcuno di quelli buoni in un bar o su un marciapiede. Ma è troppo poco. Siete tanti, troppi. Come si fa a massacrarvi tutti? No, così non va bene. Così vi facciamo appena il solletico. Anzi, vi rendiamo solo più felici quando sapete che in quel bar e su quel marciapiede non c’eravate voi e nessuno della vostra stronza famiglia che ha già in tasca i biglietti per il viaggetto finto progressista in Yemen o a Cuba.

Però da qualche giorno nei cunicoli delle fogne echeggiano bisbigli. Delle volte sono più forti degli squittii dei ratti e del tonfo dei liquami. E’ un passaparola che va da un coccodrillo bianco all’altro. Sono sussurri arrabbiati, voci di rivolta, e crescono di giorno in giorno. Dicono che il gran giorno è vicino. Presto verremo su. Tutti quanti e non uno alla volta. Saremo in tanti. Usciremo dai tombini stradali e dalle grate sui marciapiedi, dalle uscite di sicurezza delle metropolitane e perfino dai vostri cessi profumati alla lavanda. Sarà piena notte e noi saremo tanti fantasmi. Un esercito di creature del buio che vi muove contro quando non ve lo aspettate.
Cosa faremo? Vi toglieremo quel ripugnante sorriso dalla faccia. Ve lo toglieremo, lo giuro.
Piomberemo nel cuore della notte nelle vostre lussuose case con l’aria condizionata e vi sgozzeremo nel sonno. Bruceremo i duecento cavalli delle vostre fuoristrada da felici affamatori dei mondi dopo il Secondo. Pisceremo nelle vostre borse da quattromila euro firmate Gucci o Checazzonesò. Vi ficcheremo nel culo le tette finte al silicone e tutta la scorta di viagra acquistato su internet.
Non è ancora il giorno. Ma le voci si moltiplicano qui nel buio delle fogne. Tra non molto saliremo su. Cominciate ad avere paura. E ridete, feccia umana. Ridete forte. Ridete finchè potete. Fatelo anche quando dormite. Presto vi scorderete come si fa. Presto saremo noi a ridere.

Siamo i coccodrilli bianchi
Di stare al buio siamo stanchi.
Alberto Radius “Coccodrilli bianchi”

martedì 16 maggio 2006

Il cinema moderno mi uccide


Aiutooooo!!!!! Muoiooooo!!!!!!! Non riesco più a vedere un film recente in dvd tutto intero. Quasi sempre interrompo la visione, tediato a morte e perfino schifato da certa grossolanità del cinema moderno, dopo un quarto d’ora o al massimo venti minuti (ma in verità capisco dopo poche inquadrature che quel particolare film è una fregatura).
Prima una precisazione. Nell’attuale fase storica i dvd che mi arrivano non sono scelti da me, provengono da mio fratello, al quale sono passati da altri suoi conoscenti. In tutti i modi sono film recenti e noti, che hanno conosciuto un certo successo al box-office. Si potrebbe dire che in molti casi sono titoli rappresentativi, nel bene e nel male, della nostra epoca.

Dunque il film che cercavo di vedere l'altra sera era Mr. & Mrs. Smith con Brad Pitt e Angelina Jolie. Sapevo grosso modo di cosa trattava e non mi illudevo di trovarmi di fronte a un capolavoro della settima arte. Il mio obiettivo principale era di giungere alla fine del film, magari lustrandomi un poco gli occhi con qualche coscia generosamente mostrata dalla Jolie e qualche scena d’azione recitata da Pitt con onestà. Niente, non ce l’ho fatta. Dopo dieci minuti già vacillavo, ma ero decisissimo ad arrivare ai titoli di coda anche in fin di vita. Poi sono cominciate le scene di azione copiate dal più cretino videogioco. La Jolie che si butta, dopo aver ucciso un signore con l’hobby del sadomaso (sia lei che il marito Pitt sono killer, sia pure l’una all’insaputa dell’altro), da un grattacielo appesa a una specie di liana tecnologica allungabile, che la deposita dolcemente sul marciapiede una trentina di piani sotto in tempo per prendere un tassì. (Il tassista ovviamente non batte ciglio vedendo questa bonazza che digrada da altezze proibitive appesa a un filo e chiede semplicemente dove la debba portare).
Brad Pitt è un filo più scanzonato e fracassone, ma pure lui spara bazookate assassine e usa congegni che non si sognerebbe nemmeno Paperinik rifornito da Archimede Pitagorico.

Sono rimasto avvinghiato alla poltrona, con la mezza idea di legarmi in quel posto come Ulisse all’albero della nave in prossimità dello scoglio delle Sirene. Mi sono sorbito qualche altro inseguimento con le auto, qualche altro po’ di stronzate alla Charlie’s Angels del gruppo tecnologico di cui serviva la Jolie, qualche sparatoria con Pitt protagonista e infine, al cinquantesimo minuto di visione di questa boiata cinematografica, ho detto basta: nessuno dovrebbe soffrire così. Ho spento il lettore dvd e mi sono dichiarato sconfitto.
Credo che siano almeno una dozzina i film che non sono riuscito a vedere nell’ultimo periodo. Ho stimato che siano almeno il doppio di quelli che ho seguito sino alla fine (e sia chiaro che il fatto che io veda un dvd interamente non significa che mi sia piaciuto).
Il penultimo film che non ho visto è stato Into the blue con Jessica Alba, storia di tesori da ritrovare ai Caraibi… Curiosamente la Alba sembra somigliantissima alla Jolie, stesse labbra rifatte, stesso sguardo altero da maliarda che ha fatto domanda per entrare negli X-Men, identica abbronzatura di coscia: sembra che a Hollywood le starlette le sfornino in serie, magari l’era dei Replicanti è già iniziata e non ce ne siamo accorti.

sabato 13 maggio 2006

Lei mi ricorda un tale


Vento di primavera, altrimenti noto come L’intraprendente signor Dick, film del 1947 con Cary Grant, Mirna Loy e Shirley Temple.
Ho fatto un fioretto alla Madonna e qui non parlerò di questo straordinario film, anche se spero di farlo nei commenti. Che dialoghi scoppiettanti, che situazioni efficaci e spassose, che tennis brillante tra gli attori (ho rivisto con piacere qualche scena ieri sera e stamattina Google mi ha ricordato, ma un po’ me l’aspettavo, che la sceneggiatura di Sidney Sheldon ha vinto l’Oscar nel ’48).

Ricorderò solo la scena finale. C’i sono Cary Grant nei panni di un pittore donnaiolo, ravvedutosi durante il film, e Myrna Loy che interpreta un giudice che ha condannato lo stesso Grant a corteggiare la sorella diciassettenne Shirley Temple per evitarle un trauma. La Loy, innamorata di Grant, vorrebbe partire per non vederlo più. Il Nostro la raggiunge all’aeroporto mentre sta per imbarcarsi. Scommettete che riuscirà a evitare che la gelida (fuori, ma non dentro) Mirna prenda l’aereo? Il gioco di parole seguente è stato utilizzato parecchie volte durante il film, sempre con effetti spassosi, e chiude il film.

Mirna Loy: Lei mi ricorda un tale.
Cary Grant: Che tale?
Mirna Loy: Uno che ci sa fare.
Cary Grant: Sa far che?
Mirna Loy: Quello che fa lei.
Cary Grant: Lei chi?
Mirna Loy: Lei voi.
Cary Grant: E che faccio?
Mirna Loy: Mi ricorda un tale.
Cary Grant: Che tale?
Mirna Loy: Uno che ci sa fare.
Cary Grant: Sa far che?...

venerdì 12 maggio 2006

Floridi commerci sentimentali


Amate o avete una relazione? Ardete di passione o vivete una storia? Bramate qualcuno o intrattenete un rapporto?

Avete notato come parliamo strano, a volte? Nessuno ormai parla più di amori trascinanti, di passioni, almeno nelle conversazioni ufficiali. Ma tutti hanno la loro brava “relazione”, la loro decorosa “storia”. Hanno un “rapporto” che magari non sarà il massimo della vita, ma è qualcosa che ha un suo valore di mercato e da cui non è prudente liberarsi, così come non è prudente liberarsi di certe azioni di borsa anche taroccate (pure i Bond Argentini hanno un piccolo valore e poi, non si sa mai, la borsa sale e scende seguendo oscure regole di mercato, e le azioni oggi deprezzate potrebbero rivalutarsi con la prossima speculazione finanziario-sentimentale).
Ormai gli innamorati sono stati sostituiti dagli agenti di borsa.
Tutti sembrano desiderosi non di iniziare un amore, ma di “avere” (che è meglio dell’”essere” già dai tempi di Fromm) una relazione di coppia con un valore di scambio misurabile e invidiabile. Tutti sono ansiosi di instaurare floridi commerci in tema di relazioni tra i sessi. Hanno l’occhio clinico che valuta l’andamento dell’import-export sentimentale con perizia rara. E godono nel profondo quando notano che la bilancia commerciale in tema di amore ha un saldo positivo. Quando si riesce a importare merci di prima necessità pagandole poco e a esportare derrate affettivo-sessuali realizzando adeguati profitti.

Sì, pare riflettere, il medio personaggio più o meno fidanzato, più o meno sposato o più o meno convivente dei nostri turbolenti tempi. Le cose non mi vanno affatto male in amore.
Nell’ultimo mese ho esportato verso il mio partner baci e carezze in quantità industriali. Ho quindi smerciato - superando la concorrenza spesso sleale di rivali in amore senza scrupoli (e delle loro pratiche al limite del love-dumping) - 26 toccate di coscia, 19 carezze tra culo e spalle, 35 baci alla francese e 98 alla vecchia Hollywood, cinque, cioè sei fellatio, di cui due con eiaculazione facciale, un numero di preliminari discreto e uno sterminato di moine adolescenziali e di "patatina" o "tesoruccio" dette alla Carmelo Bene col mal di pancia… E infine, con un blitz audace che ancora stanno ammirando a Wall Street, ho attuato quattro mordicchiamenti di lobo d’orecchio e due lingue avide felicemente introdotte nel padiglione auricolare altrui.

La sezione importazioni registra le seguenti e cospicue voci (tutte specialità merceologiche acquisite a costo conveniente e con un moderato dispendio di energie). 23 baci con la lingua. 32 manipolazioni di tette, con mordicchiamento di capezzoli in numero di otto. 118 focosi palpamenti equamente distribuiti tra cosce e culo e fianchi, con annessi 34 pizzicotti a glutei e oggetti tondeggianti. Alcune slinguate alla bernarda, in quantità comunque inferiori alla doppia cifra. Diverse frasi tenere dette durante la lettura della pagina sportiva della Repubblica e perfino due strofe recitate da cani di una poesia di Jacques Prévert spacciata per propria. Infine il piatto forte della mia attività commerciale dell’ultimo mese: 12 minchie (dodici) felicemente approdate nei miei porti meridionali, recanti sperma viagrato ben trattenuto da profilattici di marca.
Ho controllato i libri mastri parecchie volte, conclude il medio personaggio dei nostri tempi. La mia economia sentimentale non potrebbe essere più fiorente. Nell’ultimo mese ho avuto un incremento di scambi commerciali di ben il 3,2 per cento, specie in settori vitali come la trombata usa e getta e il cinguettio finto fanciullesco usato per dire "amore" e "tesoro" allo strano individuo che mi gira per casa dicendomi "amore" e "tesoro".
Nessuno dei miei conoscenti è in una situazione tanto florida. Anzi per molti di loro in campo sentimentale si profila la stagnazione se non addirittura la recessione.

mercoledì 10 maggio 2006

Alzati che sta passando il cinema western


Signore e signori, ecco a voi John Ford. Non andate via, signore e signori, perché abbiamo pure un altro e più famoso John, e cioè il monumentale, non solo di fisico, Wayne.
Non ci serve nient’altro. Abbiamo tutto ciò che ci serve per essere felici. Per godere, per portare la nostra anima sognatrice all’orgasmo. Abbiamo gli sterminati paesaggi del selvaggio West, la suggestione unica dei grandi spazi e dei fitti silenzi della Monumental Valley prediletta da quello dei nostri due John che si dedica alla regia. Abbiamo il profumo della prateria e delle distese innevate del grande Nord (e della libertà insita in questi due odori dolcissimi), che arriva a noi anche dalle due dimensioni del grande schermo.

E abbiamo questo straordinario eroe in cui immedesimarci. Ossia il gigantesco, sprezzante, burbero, cinico John Wayne/Ethan, che darà corpo alla nostra ansia di trasformarci in protagonisti di vicende memorabili. Va tutto bene così? No, non va ancora bene. C’è bisogno ancora di qualche ritocco per godere al meglio della nostra avventura Perché non sta bene che il nostro modello sullo schermo abbia solo qualità positive. Che diavolo, siamo spettatori moderni e smaliziati! E allora che il nostro eroe sia anche un po’ razzista. Che il nostro eroe sia accecato da un odio verso gli indiani che lo porta a infierire sui loro cadaveri, affinché senza gli occhi le anime dei suoi nemici mortali non trovino la strada per arrivare a Manitù. Sì, un pizzico di razzismo antipellerossa (l’unico indiano buono è quello morto) va bene nel nostro eroe Ethan/Wayne. Aumenta la sua complessità e credibilità psicologica. In tutti i casi già sappiamo – siamo spettatori smaliziati non solo a parole - che prima della fine dell’avventura a due dimensioni il nostro Ethan si sarà redento dal cinismo e ancor più dal razzismo. E ci accompagnerà alla scritta finale mentre ci sentiamo il cuore leggero e grato.

Ho rivisto poche sere fa uno dei capolavori western di John Ford, Sentieri Selvaggi del 1956. Non il film del maestro del cinema che preferisco in assoluto (Ombre rosse e Il massacro di Forte Apache mi piacquero di più, ricordo; senza scordare il formidabile e modernissimo Uomo che uccise Liberty Valance o gli ugualmente eccezionali Cavalieri del Nord Ovest, Un uomo tranquillo o La carovana dei mormoni: ma qui è meglio smettere o non si finirebbe mai di citare film del genio del western). In ogni caso è una storia o meglio un‘avventura come ce ne sono poche. Tra l’altro si tratta della pellicola fordiana in assoluto preferita dai critici, quelli dotti e qualche volta con la puzza sotto il naso (probabilmente a causa della già accennata maggiore complessità psicologica rispetto a film precedenti e del superamento di una visione manichea seppur spettacolare del West). In una recente classifica stilata dai maggiori critici cinematografici, Sentieri Selvaggi si è classificato al quarto posto nei film di tutti i tempi.

Abbiamo tempo solo per la trama e per qualche considerazione finale. 1868, il disilluso Ethan, reduce alla guerra civile, è ospite del fratello nel periodo di tempo in cui questi e la sua famiglia sono trucidati dagli indiani. Sola la più piccola delle bambine sopravvive, rapita dai razziatori (sono i terribili Comanche). Ethan, aiutato dal figlio adottivo del fratello morto, Martin, cerca la superstite per mari e monti per dieci lunghi anni. Ritroverà la nipote quando, ormai adulta, sarà diventata un’indiana. Indimenticabile la scena finale, quella in cui John Wayne insegue a cavallo la nipote ormai corrotta ai suoi occhi dalla prolungata promiscuità con i pellerossa (trattasi della mitica e sfortunata Nathalie Wood)). Tutti pensiamo che voglia ucciderla, come ha già dichiarato di voler fare in altre parti del film. Invece all’ultimo momento John cambia parere e carica con affetto la Wood sul cavallo e dice qualcosa tipo “Si torna a casa”.

Cosa mi è rimasto impresso del film? Soprattutto la scena iniziale. C’è la porta di una tipica abitazione di legno che si apre e… ed ecco che il West ti entra in casa con le straordinarie distese della Monumental Valley. Cioè due metri fuori della casa, non a duecento metri o a due chilometri, già si respira aria di libertà. Già ti pare quasi di vedere gli indiani, ancora ostili nel cinema di quegli anni, o i bisonti… anche se i veri bisonti nel film si vedono solo quando le ricerche di Ethan e del nipote li porteranno molto più a Nord (a quel punto il truce Wayne uccide gratuitamente parecchi di quei bestioni per il solo scopo di affamare gli indiani: pensava, correttamente e in anticipo sui tempi, di annientare l'odiata razza dei pellerossa togliendole la principale fonte di sussistenza).
Efficacissimo lo scorbutico personaggio disegnato da Wayne. Le sue risposte sprezzanti al povero nipote che ha la sventura di accompagnarlo nella ricerca colgono sempre nel segno.
Ad armonizzare trama e personaggi, c’è tutto l’armamentario del West reso celebre da Ford. Le canzoni popolari, le briose donne in sottana che mettono in riga omaccioni grandi il doppio di loro, l’intermezzo comico assicurato dal mezzo scemo ma valoroso Mosè o dal Reverendo/capitano dell’esercito antagonista di Ethan. Ciliegina sulla torta il duello rusticano a colpi di sinceri cazzotti per decidere a chi debba andare in sposa la fanciulla fordiana già in abito nuziale.

Sul versante degli indiani, parecchie le note positive. Prima di tutto i nativi americani, come si dice adesso, sono visti in modo ben più articolato rispetto al passato. Gli indiani sono spinti da solide ragioni che spiegano, se non giustificano, certi loro eccidi indiscriminati. Hanno una loro cultura e personalità. Parlano di meno come i negri dei tempi di Via col vento e sembrano meno fumettistici dei loro colleghi sia pure efficacissimi di Ombre rosse. Pregevole pure la presenza di veri attori o comparse pellerossa, punto di rottura con certi indiani di aspetto mitteleuropeo che si vedevano nei film dell’epoca. Una delle poche note stonate in questo campo è che il capo dei Comanche razziatori, Scar/Scout, ha la faccia di uno che gli indiani li ha visti solo al circo.
Il film finisce dove era iniziato. Con lo straordinario uscio che si chiude sulla prateria. Tac, buio. L’avventura è finita.

martedì 9 maggio 2006

L'interrogazione - La trilogia galattica 2

- Allora, caro allievo, sei preparato per l’interrogazione?
- Ce l’ho messa tutta, signore, ma dovrà riconoscere ci vorrebbe un secolo per studiare e capire il… come dire, didietro delle donne terrestri.
- Chiamalo pure culo, quell’altro termine è usato solo da umani affetti da eufemismo acuto. Vedo che il tuo processo di trasmigrazione genetica è quasi concluso. Quando andrai in missione sulla terra col resto della classe veghiana nessuno ti prenderà mai per un alieno. Ora però dimmi della relazione. Hai trovato qualche modo creativo per interagire con il culo femminile?

- Ecco, non so se posso… io e gli altri compagni del gruppo di studio in effetti avremmo pensato, immaginato un modo che… ma forse è solo una nostra congettura senza fondamento.
- Prego, va’ avanti.
- Uhm, avremmo notato che il maschio umano è dotato di questa bizzarra appendice, credo sia una specie di organo sessuale denominato…
- … parlerò in un'altra lezione dell’appendice maschile.
- Sissignore signore, come lei avrà notato l’oblungo organo maschile reagisce a particolari sollecitazioni psicologiche cambiando forma e volume.
- Questa sua particolarità è nota a tutti gli osservatori della fauna terrestre. Procedi
- Ora, io e gli altri ragazzi del gruppo di studio abbiamo notato che sul didietro… mi scusi, sul culo... Qui, signore, le mostro il punto sul modello di femmina umana a grandezza naturale di cui è dotata la nostra classe. Vede, tra gli emisferi denominati glutei c’è questo come potremmo definirlo…
- Orifizio?
- Grazie, è la parola giusta. Dunque noi pensavamo che l’elemento maschile potesse relazionarsi con quello che lei ha chiamato…
- … ma che assurdità è mai questa? La vostra congettura è del tutto sconclusionata. Risulta evidente che l’appendice maschile in questione non riuscirà mai a relazionarsi con l’alveolo umano da voi indicato. Si vede a occhio nudo. Fate pure qualsiasi misurazione dei due elementi del problema e vi renderete conto…

- Ecco, dotto insegnante, anche a noi non è sfuggita questa particolarità di grandezze fisiche, ma abbiano giudicato che con l’aiuto di agenti antiattrito…
- Che diavolo farnetichi?
- Mediatori oleaginosi.
- Ti si è imbalsamata la gola? Non capisco, parla chiaro!
- Uh, usando termini terrestri potremmo dire che cospargendo l’area interessata di burro o margarina, prodotti che come lei certamente saprà…
- Ah, parli di lubrificatori! E perché non lo dici chiaro e tondo!
- Con questi elementi lubrificatori noi riteniamo che l’organo maschile potrebbe instaurare un’interazione proficua con, ehm, il cul…
- Le mie povere orecchie si rifiutano di ascoltare queste asinerie! La fisica è una cosa seria. E’ evidente a qualunque occhio, veghiano o terrestre, che lo scenario da voi prospettato non alcuna possibilità di verificarsi. Dove avete preso un’idea così inconcludente?
- Ci scusi, abbiamo visto un film terrestre in cui questa immissione veniva attuata con successo e, da quanto abbiamo potuto appurare, con soddisfazione delle due controparti, sicuramente di una.
- E voi credete a quelle cretinate dei film terrestri? Ma non lo sapete che la marmaglia umana sospira ancora per anticaglie sdolcinate come Via col vento? Cos’è, quella smorfia scettica? Volete mica forse mettere in dubbio il mio dotto parere?
- Nossignore signore. Solo che per verificare l’infondatezza della nostra congettura etologica, noi vorremmo, se lei ce lo permette…
- Permettere cosa?
- Vorremmo tentare un esperimento, come dire, di laboratorio.
- Un esperimento?
- Tenteremo, con la sua autorizzazione, di inserire il corpo oblungo A nel soggetto ricevente B. Ora le mostro.
Il didietro femminile - La trilogia galattica 1

sabato 6 maggio 2006

Il cruciverba dei blogger


Ragazzi, ci ho messo una vita per fare questo cruciverba (soprattutto per trasferirlo in un’immagine pubblicabile). Ho cercato di inserire quanti più nick di blogger amici, anche se in qualche caso mi sono dovuto arrendere ai miei limiti intellettuali.
Mi scuso verso coloro che non hanno trovato posto nelle mie definizioni; prometto che magari essi avranno accoglienza in un altro cruciverba futuro. I nomi inseriti devono la loro presenza alla loro facilità di immissione e non a qualche mia inesistente preferenza. Mi scuso per eventuali errori: è la prima volta in assoluto che creo uno schema di parole incrociate, pur essendo stato in altre epoche appassionato di enigmistica.
Spero che vogliate ricambiare i miei sforzi facendo un po’ di pubblicità per questo post. Saluti e baci a tutti gli amici del blog.

Ecco le definizioni che ci interessano.
Orizzontali: 9. Lewis lo scattista e Pea la blogger. 12. I suoi pensieri non sono affatto inutili come egli afferma. 13. La simpatica strega del blog in breve. 16. La fenice si spera felice. 18. Tov scrittore riservato. 19. La famosa e dark fragol. 22. Pinball. 24. L’attonita che lascia attoniti. 28. La ragazza che… 30. Il blogger che vede Oltre. 32. Quando non è Carl. 33. Una Miss tra noi.

Verticali: 1. Remedios in breve. 2. Attende a Itaca. 3. Un fiore delicato. 4. Atteso a Itaca anche senza testa. 7. Quelle della signora sono Scure. 14. L’elegante Aikido per gli amici. 15. Vale più delle Emme. 18. Semprelei quando lo dice lei. 19. Il suo è rosso.

mercoledì 3 maggio 2006

Il didietro femminile - La trilogia galattica 1


Questo, cari allievi, è un culo di donna. Rientra sotto questa definizione la speciale regione anatomica femminile posta sul retro del baricentro di questo bipede straordinario. Noterete la particolare conformazione sinuosa che obbedisce a una geometria curvilinea del tutto avulsa dalla spigolosità. Altri appellativi di questa invero mirabile struttura dell’universo, dove è più evidente che altrove l’indugiare della mano del Creatore, sono sedere, deretano, didietro, posteriore o più prosaicamente paniere o cestino.
Osservate qui e qui, cari allievi, ove pongo adesso la mia bacchetta da insegnante. Queste due aree tondeggianti dall’aspetto della pesca matura si chiamano glutei, i quali sembrano essere creati unicamente per ricevere pizzicotti da ardenti mani maschili. Tuttavia, o esimi studenti, quando sarete sul pianeta terra sotto mentite spoglie umane, non indulgete mai in questa pratica, perché le femmine umane terrestri, per qualche assurda ragione etologica non ancora compresa dai nostri studiosi del settore, reagiscono con violenza quando sono fatte oggetto di simili attenzioni.

Lo sguardo, noterete, è attirato ineluttabilmente dal punto di congiunzione dei glutei e accarezza la superficie anatomica adeguandosi alla flessuosità della sua struttura. Altra considerazione suscitata dalla nostra lezione odierna è che il culo femminile sembra esistere soprattutto per adeguarsi alla mano maschile. Ecco, qui accanto alla cattedra abbiamo una riproduzione di femmina umana a grandezza naturale. Provate, cari allievi, ad accarezzare la particolare area che studiamo oggi. Quelli di voi già avanti nel processo di trasmigrazione genetica verso il tipo umano noteranno che il modo migliore per saggiare il culo femminile è mettersi frontalmente alla sua portatrice, di modo che la mano aperta agguanti un gluteo in tutta al sua estensione e vi affondi un pochino i polpastrelli. Vi accorgerete che durante l’azione le vostre falangi tenderanno ad assumere una forma rapace, tipica dell’artiglio predatore intento a ghermire. Ma vi esorto vivamente a non abbrancare il culo femminile come suggerirebbe la meccanica dell’azione, onde evitare le reazioni etologiche già accennate poco avanti.
Naturalmente, ove la situazione lo permettesse, potreste anche saggiare con un polpastrello, il nostro testo scolastico suggerisce quello del dito medio, il punto di congiunzione delle morbide emisfere dette glutei. Vi suggerisco di compiere l’azione con prudenza, giacché essa è passibile di accelerare la pressione sanguigna oltre i limiti che i nostri esperti di fauna terrestre giudicano pericolosi per la salute.

Ah, mi accorgo che è scaduta l’ora di lezione, anche se la nostra disamina dell’argomento odierno è lungi dall’essere esaurita. Per domani fate una relazione sul modo più consono per stimolare il didietro delle donne terrestri. L’allievo che suggerirà il modo più creativo per interagire con questa struttura anatomica riceverà una nota di merito.
L'interrogazione - La trilogia galattica 2