sabato 30 settembre 2006

Damme nu vaso primma ca moro


Damme nu vaso cu sta vocca zuccarella,
damme nu vaso roce ca sape e fravole cumm’atté,
damme nu vaso primma ca moro
e damme nu vaso, famme campà pur’ammè.
Nu vaso che te costa?
Puro si nun me vuo’ bbene,
puro si nun me può suppurtà,
damm''a vocca toia e famme arricrià.

Ma t’è vista che femmena ca sì?
L’e viste chilli capille luonghe e lisce?
E chill’uocchie chine e cielo
e chelli braccia ianche e secche
‘ngopppa a stu pietto maniariello
ca me fa fregnere ‘ncuorpo?
L’e capite ca me facesse accirere pe nu vaso tuoio?
Pe nu vaso e sta vocca bella?
Nun sto pazzianno, uagliò,
me manca ‘o ciato solo a ce penzà.

E mmane toie, po’, nun se ponno raccuntà.
So’ ‘e mmane e na’ reggina
e n’angelo r’’o paraviso,
so accussì peccerelle e fine ca facessero nnammurà
pure ‘e muorte e Puceriale.
E quanno te miette ‘o smalto russo,
maronna mia, i’ te magnasse tutt’’e dete.

Si’ proprie na ‘nfamona,
tutto stu bbene e Dio t’’o ttiene pe’ tté,
quanno putisse fa arriciatà tant’uommene
ca se so’ scurdate ‘o doce e ll’ammore.
E damme nu vaso, famme campà pur’ammè.
Famme campà cinche minute ‘mmocca a Dio,
Fa’ chest’opera e carità.

Questa è la traduzione dal napoletano, sempre con l’avvertenza che la traduzione del dialetto lo avvilisce e che quindi sarebbe bene leggere solo la versione originale.

Dammi un bacio con questa bocca di zucchero,
dammi un bacio dolce che sa di fragola come te,
dammi un bacio prima di morire,
dammi un bacio, fa’ vivere pure me.
Un bacio che ti costa?
Pure se non mi vuoi bene,
pure se non mi puoi sopportare,
dammi la tua bocca e fammi felice.

Ma ti sei vista che donna che sei?
Li hai visti quei capelli lunghi e lisci?
E quegli occhi pieni di cielo
e quelle braccia bianche e snelle
sopra questo seno piccolo
che mi fa vibrare dentro?
L’hai capito che mi farei uccidere per un tuo bacio?
Per un bacio di questa bocca bella?
Non sto scherzando, ragazza,
mi manca il fiato solo a pensarci.

Le tue mani poi non si possono descrivere.
Sono le mani di una regina,
di un angelo del paradiso,
sono così piccole e sottili che farebbero innamorare
pure i morti di Poggioreale.
E quando ti metti lo smalto rosso,
madonna, ti mangerei tutte le dita.

Sei proprio senza cuore,
tutto questo ben di Dio lo tieni solo per te,
quando potresti far felici tanti uomini
che hanno dimenticato com’è dolce l’amore.
Dammi un bacio, fa’ vivere pure me
Fammi vivere cinque minuti vicino a Dio,
fa’ quest’opera di carità.

martedì 26 settembre 2006

Contrordine: gli uomimi preferiscono le cervellone alle oche


Tenetevi forte perché sto per fare una dichiarazione epocale. Qualcosa che sconvolgerà le vostre conoscenze e coscienze. Un’affermazione che farà giustizia di luoghi comuni e falsi miti propagandati in ogni cantuccio di questo mondo asservito alla filosofia dei reality show. Vi avverto, non sarete più gli stessi di prima dopo aver letto questo post. Io vado allora, eh? :-))
Ecco la mia sconvolgente dichiarazione. A differenza di ciò che si dice a ogni latitudine e di ciò che forse anche voi credete, cortesi amici del blog, gli uomini non preferiscono le oche, ma le donne intelligenti. Quelle che hanno cervello e pensano. Quelle che sanno fare conversazione e aprono la bocca senza dire banalità, ma esprimendo pensieri articolati.
Ma come, direte voi? Sei impazzito? Lo sanno tutti che i maschi vanno in estasi quando possono accompagnarsi a un velina mezza scema o a una calendarista che non azzecca un congiuntivo manco per sbaglio. E che si tengono alla larga dalle Rita Levi Montalcini anche quando hanno vent’anni e sono carucce. Ci stai a prendere in giro?

Sono serissimo. In effetti anch’io, a furia di leggere questo luogo comune in ogni dove avevo finito per convincermi che fosse vero (l’ho letto solo pochi giorni fa in un paio di post schiaffati in prima pagina). Poi ho pensato. Dove sta scritto che gli uomini hanno un debole per le oche? Perché dovrebbero tenersi alla larga da una donna che pensa? In quel momento ho avuto come una rivelazione dall’alto. I maschi, e dunque anche questo vostro indegno narratore, non si tengono alla larga dall’intelligenza femminile, ma dall’aggressività che spesso a essa è connaturata.
Da qui sono venute intuizioni a grappoli. Il maschio, è notorio, non si eccita (non per sua scelta, ma per motivi evoluzionistici) in presenza di comportamenti aggressivi. Un cipiglio battagliero non suscita desiderio sessuale, ma piuttosto facilita il rilascio dell’adrenalina necessaria per prepararsi a uno scontro o a un confronto spigoloso. L’aggressività altrui mette in moto il sistema di lotta-fuga, non certo i circuiti cerebrali legati alla riproduzione e all’affettività. Anche se talvolta nei film di Tinto Brass o nelle barzellette si vedono maschi godere in presenza di bellicose virago che li frustano e li seviziano, questo è ben raro che accada nella realtà. Il comportamento aggressivo (che sia manifesto o occultato dalle buone maniere) quindi tende a essere un potente antagonista dell’apparato sessual-affettivo. Non a caso è stato osservato che il comportamento degli innamorati somiglia a quello dei bambini, con coccole e moine puerili volte proprio a disinnescare l’aggressività e quindi a favorire l’affettività e il desiderio sessuale, in altre parole l’amore.

Dopo questa riflessione tuttavia mi sono trovato a pensare che spesso l’intelligenza si accompagna all’aggressività. Non è una regola automatica e immancabile, ma di rado mi è capitato di conoscere una persona intelligente che non fosse pure aggressiva (anche se di quel tipo di spirito combattivo celato da buona maniere proprio della nostra società sofisticata). Ci sono, è vero, pure non pochi casi che sfuggono a questo principio. Il geniale Einstein non era molto aggressivo o litigioso a quanto ne so, o comunque lo era molto meno di certi scienziatucoli falliti che sono disposti ad accoltellarti se metti in dubbio qualche loro teoria.
Quindi ecco il ragionamento che sottopongo alla vostra riflessione. I maschi non sono intimiditi dall’intelligenza delle donne come comunemente si crede, ma solo all’aggressività che parrebbe essere il sottoprodotto di quella qualità umana. Parimenti non sono attratti dall’atteggiamento gallinaceo di certe svampite da rotocalchi, ma solo dalla mancanza di spirito antagonistico che è il substrato di questo tipo umano. Anzi qualsiasi maschio può e deve essere allettato da una donna brillante, perché accoppiandosi con lei genererebbe una prole più perspicace – l’intelligenza umana segue vari percorsi, ma uno è legato senza dubbio all’ereditarietà - e quindi adatta alla sopravvivenza (e sappiamo che è solo questo fine evolutivo che ci fa trovare o non trovare attraente un possibile partner sessuale).

Le donne esemplificate in questo post sono state immaginate uguali in tutto, aspetto, età, indole, tranne nell’intelligenza.

lunedì 25 settembre 2006

Io domani (parte prima)


E’ tutto buio. Mi fa paura, il buio. Da quando ero piccolo. Ho passato anni con la lucina accesa di notte. E’ un’abitudine di molti bambini, ma poi passa quasi a tutti. A me no. La mia lucina era accesa di notte anche dopo sposato e anche dopo che la mia prima figlia se ne è andata di casa. Dicevo che era una piccola mania innocua. Non ho mai confessato ad anima viva che il buio mi terrorizza, specie se prolungato.
Per ora comunque, al di là del buio, sto a meraviglia. Perché mi sento così voglioso di vivere? E se c’entrasse l'incidente del sogno? Di certo il brutto sogno è frutto dell’abbuffata di ieri sera. Mi sono ingozzato come un porco in un ristorante etnico, greco o turco, vatti a ricordare. Però forse non sono state brodaglie infuocate e trippa al peperoncino a mettermi fuori gioco. In effetti l’incidente che pensavo di aver sognato potrebbe essere accaduto davvero. Ecco, ora tutto mi è chiaro.

Tornavo da un fine settimana passato a folleggiare con la mia molto amante e poco segretaria. Avevamo preso una buona tirata di coca, io e Valeria. E credo di aver ammanettato la mia segretaria alla testiera del letto e di averla picchiata, ma solo un pochino. Niente frusta, stavolta. Le ho fatto uscire appena un filo di sangue dall’angolo della bocca a suon di ceffoni; il suo nasino delicato non ha ruscellato la solita fanghiglia rossa… d’altra parte uno come fa ad eccitarsi senza certi preliminari? Dunque ero su questa curva a doppio senso quando la mia Audi è impazzita. Ha sfondato il guardrail precipitando in una scarpata. Valeria, dolorante e sanguinante, è uscita fuori dall’auto capottata chiedendo aiuto. Sei stata grande, Valeria, avrei voluto dirle mentre correvo verso l’ospedale in un’autoambulanza a sirene spiegate. Mi hai salvato la vita con la tua prontezza di riflessi. Mi spiace ricompensarti per il suo eroismo scaricandoti a brutto muso come farò domani.

Ho già tentato diverse volte di alzarmi, ma non ci riesco. Niente di preoccupante. Per operarmi devono avermi anestetizzato e gli effetti si fanno ancora sentire. Comunque tra poco, ne sono certo, potrò alzarmi dal letto di ospedale in cui devo trovarmi e accendere la luce. Ho sempre pensato che sarei impazzito trovandomi un’ora al buio. E per completare quell’ora non ci deve mancare molto. Una volta sono rimasto chiuso in ascensore per mezz’ora senza vedere una lucina piccola così. All’uscita sono piombato in una crisi di pianto. Ci sono voluti sei mesi di terapia per liberarmi del nero seppia addensatosi dentro.
Dunque, a che pensavo? Ah, al fatto che da domani sarò un uomo molto migliore. Prima di tutto devo cominciare a trattare mia moglie come un essere umano. Dov’è finita la luce bellissima che illuminava il mondo intorno a lei? L’ho spenta io con le mie scappatelle. Talvolta sono stato crudele senza motivo. Ho lasciato a bella posta sulle mie camicie tracce di rossetto. Ho superato ogni limite di cattiveria quando ho sistemato in casa, in un luogo a lei facilmente accessibile, una foto di me abbracciato a una delle mie amanti occasionali. L'ho presa pure in giro quando Anna ha finto di non aver mai visto la foto del marito fedifrago. Mia moglie è stanca e imbottita di psicofarmaci. Forse pensa che la vita sia un tale inganno che viverla accanto a uomo codardo e traditore o altrove ha poca importanza.

Domani chiederò perdono ad Anna. E anche ai miei figli. Sono sempre stato una sorta di estraneo ostile per loro. Mai presente in caso di bisogno. Mai trovati cinque minuti per raccontare una favola prima di dormire. Chiederò scusa a Cristina per averla buttata fuori di casa dopo il suo matrimonio con un poveraccio che non giudicavo alla sua altezza, cioè alla mia. E lo stesso farò con il povero Roberto. Scommetto che non ha scordato le botte che gli dato quando, a soli tredici anni, mi ha dato dello schifoso nazista arraffasoldi.
Appena schiarirà giorno, l’ho detto, nuova vita. Basta con la mia spietatezza da squalo degli affari. Basta imbrogliare i clienti della mia agenzia di assicurazione. Ho toccato il fondo quando, con la complicità di un medico corrotto, ho fatto stilare un falso certificato medico per derubare del suo premio assicurativo il marito di una donna morta per cancro, un operaio in cassa integrazione di Genova. Il disgraziato si è suicidato a causa dei debiti contratti per le spese legali. Be’, appena possibile risarcirò i figli.
Ah, quante cose devo fare. Domani dovrò scusarmi con il mio ex socio di lavoro e dargli i soldi di cui l’ho derubato quando mi ha venduto la sua parte della nostra agenzia di assicurazioni. Gliel’ho pagata una miseria profittando del suo bisogno di contanti a causa di problemi familiari. Domani andrò a trovare, dopo quattro anni, la mia vecchia mamma che ho chiuso in un istituto per disabili con la scusa di cure più adeguate. Domani risarcirò i miei fratelli dell’eredità che gli ho sottratto con un testamento estorto a mio padre agonizzante. E riassumerò nella mia agenzia un’impiegata belloccia, una certa Marilena tutta curve, che ho licenziato due anni fa perché non voleva venire a letto con me.

Questo post è un mio racconto che avevo stampato su carta. Ho deciso di accorciarlo e pubblicarlo qui in due puntate. “Io domani”, come si ricorderà, è un’indimenticabile canzone di Marcella Bella.

giovedì 21 settembre 2006

Poesia, poesia, sembra che non ci sia


Un giorno di aprile ero cotto di una blogger. Volevo in tutti i modi persuaderla a vedermi con favore. Volevo rassicurarla sulla mia anima gentile (la mia anima talvolta è davvero gentile anche se in qualche caso soggetta a incresciosi cambi di umore). Ero fermamente deciso a mandarle poesie. Ma quali? Neruda, Byron, Garcia Lorca, la Dickinson o addirittura Catullo? (Non sono un grande esperto di poesia, ma qualcosa ho letto pure io.)
Ci pensai e capii quasi subito che solo un genere poetico poteva esprimere i miei sentimenti nella maniera in cui li percepivo, il dolce stil novo. Dopo lunga meditazione scelsi i versi che seguono. Di recente ho avuto qualche dubbio esistenziale riguardo all’effettiva utilità dell’invio di versi per conquistare il cuore di una donna, dato che ho visto individui illetterati e rozzi, di cui è dubbia perfino l’appartenenza al genere umano, bivaccare sulle spoglie di raffinate donzelle che avevano ceduto al loro fascino.

Dante "Tanto gentile e tanto onesta pare"

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Guido Guininzelli "Io voglio del ver la mia donna laudare"

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch'è lassù bello a lei somiglio.
...
Passa per via adorna, e sì gentile
ch'abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa 'l de nostra fé se non la crede;
e nolle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c'ha maggior vertute:
null' om pò mal pensar fin che la vede.

Guido Cavalcanti "Io non pensava che lo cor giammai"

Io non pensava che lo cor giammai
avesse di sospir' tormento tanto,
che dell'anima mia nascesse pianto
mostrando per lo viso agli occhi morte.

Ancora Dante "Ne li occhi porta la mia donna Amore"

Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch'ella mira;
ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d'ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.
Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond'è laudato chi prima la vide.
Quel ch'ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

mercoledì 20 settembre 2006

L'amore è Ottocento


Dove abita l'amore di preferenza? In quale luogo, in quale epoca? Domanda difficile. Ognuno lo vede dove vuole. Per me l’amore più coinvolgente al cinema o nei libri è soprattutto quello vissuto e ambientato dell’Ottocento. Non saprei dire perché. Ho visto e letto spesso storie sentimentali ambientate in questo secolo che mi hanno catturato. L’amore nella fiction, televisiva o narrativa, per me è quello del secolo dei grandi cambiamenti, del romanticismo, delle macchine a vapore, del positivismo, del darwinismo, dell’industrialismo, del socialismo e di un sacco di altri ismi. Ci si può amare nei tempi attuali o in uno qualunque dei decenni dopo la guerra mondiale, ci si può amare negli anni Trenta o all’epoca del cinema muto, nel Settecento, nel Seicento, sui vascelli corsari in rotta per la Tortuga o nelle corti principesche del Rinascimento, intorno a una Tavola Rotonda, nella Firenze di Dante e Guininzelli o dove si voglia… però gli amori che più mi hanno colpito sono quelli dei tempi di Stendhal o di Flaubert, delle Cime Tempestose e delle Signore delle Camelie.
La storia televisiva che (almeno per quanto ricordo adesso) mi ha coinvolto di più dal punto di vista sentimentale è Il rosso e il nero di Stendhal, in una riduzione televisiva credo russa, c’era mi pare l’attrice Natalia Bondarciuk nel ruolo di Mathilde, la signora sposata che cede al fuoco passionale di Julien Sorel (ho cercato di trovare notizie su questo sceneggiato con Google, ma non ci sono riuscito, quindi mi dovrò accontentare dei miei ricordi). Rammento che mentre vedevo questo storia televisiva ero preso dall’elettricità che emanava dall’adulterio montante. Percepivo nitidamente l’atmosfera di peccato, il dolce sapore del proibito. Gli sguardi malandrini che volavano sullo schermo tra il seminarista e precettore Sorel e Mathilde - la bella e come si dice inquieta moglie del suo datore di lavoro - mi coinvolgevano in prima persona. Ho letto pure il romanzo e devo dire che, anche se è molto raffinato e descrive con maestria un’epoca storica, non comunica la stessa elettricità amorosa e passionale dello sceneggiato televisivo che ebbi la fortuna di vedere.
Ci sono state un mucchio di altre storie amorose legate all’Ottocento che mi hanno lasciato un’emozione duratura, Orgoglio e pregiudizio, L’educazione sentimentale, Jane Eyre la solita Madame Bovary, le molte Figlie di Capitani, per non scordarci pure i meno celebrati ma non meno intensi amori dei Michele Strogoff o delle Tigri della Malesia che hanno agitato i cuori in questo secolo straordinario. I titoli sono così tanti che non potrei citarli tutti anche se li ricordassi senza omissioni. Perfino in un romanzo di impostazione nettamente diversa da quella sentimentale come Frankenstein o il moderno Prometeo, l’amore viene attinto a piene mani dalla penna ispirata di Mary Shelley; il mostro creato dallo scienziato pazzo ama, perfino più di molti uomini di epoche successive.
La nostra mente come è noto a qualcuno opera delle semplificazioni per rendere visivamente una parola. Per esempio se io dico “cane” il cervello di chi ascolta questa parola riprodurrà l’immagine media di un cane archiviata nei suoi neuroni. Allo stesso modo ciascuno accosterà una sua immagine personale in riposta alle parole albero, fiore o, che ne so, yogurt. Ebbene penso che nella mia mente la parola amore sia associata in maniera irreversibile a un uomo in redingote ottocentesca che flirta con una signora in crinolina, possibilmente in un’atmosfera proibita.

lunedì 18 settembre 2006

L'arresto - terza puntata


Terza puntata
“Lasciate andare subito quella signora, ho detto!” Frastornata, Emma si stupiva che non fosse ancora svenuta. Perché si vedeva accerchiata da cappelli a cilindro e crinoline e non da cellulari con la videocamera e da piercing infilati fin nelle chiappe? Perché gli unici cavalli visibili erano quelli aggiogati alle numerose carrozze e carrette e non quelli dei motori delle automobili imprigionate nel traffico? E che dire degli schiocchi di frusta che rintronavano nell'aria al posto delle suonerie da cellulare tratte dai film di James Bond?
Si morse le labbra per mantenersi vigile perché si rese conto che perdendo i sensi ora non si sarebbe svegliata più. “Sto parlando con voi, signori, lasciatela andare!” disse autoritaria la voce di prima.

Emma sentì allentarsi la presa sulle braccia, anche se le antiquate divise non si allontanarono. Il dannato corpetto che la tormentava dalla sua venuta in questo mondo attenuò la presa sul torace abbastanza da farle mandare giù alcuni provvidenziali sorsi d’aria. Ecco, finalmente mise a fuoco l’uomo che aveva parlato. Era alto, tranquillo, si era messo sul cammino dei due gendarmi e non sembrava intenzionato a liberare il passaggio. Redingote e cappello a cilindro di raffinata fattura, insieme con le ghette e l’elegante bastone da passeggio, lo qualificavano come un personaggio non da poco. Negli occhi fieri dell’uomo, nessun segno della deferenza o del timore che le uniformi degli sbirri suscitavano nei passanti, alcuni dei quali si erano fermati per osservare la scena. Parcheggiata sul bordo della strada, una lucida carrozza con il portello aperto, con tutta evidenza la vettura da cui era sceso l'individuo lì davanti.
“Liberate il passaggio, signore, se non volete subirne le conseguenze.” L'interessato accolse l’intimazione del gendarme come se provenisse da un lacché con manie di grandezza. Non era preoccupato neanche il cocchiere della carrozza aperta, abbigliato in pompa magna, quasi che il suo principale si scontrasse ogni giorno con le forze dell’ordine.

Emma fu presa da uno dei frequenti capogiri degli ultimi tempi. Da quando aveva superato la porta temporale che l’aveva condotta in questo assurdo mondo di Jean Valjean e conti di Montecristo il nonsenso spadroneggiava, ma la scena attuale era la più indigesta per la sua povera mente. Perché quell’uomo ben vestito interveniva in difesa di una sconosciuta? E soprattutto, perché il suo viso le pareva familiare? Come poteva averlo già visto prima se non era mai stata in questo Ottocento alieno? Nel frattempo i curiosi si erano radunati in una piccola folla, tanto che qualche passante per procedere doveva abbandonare la sicurezza del marciapiede e avventurarsi sulla strada dove le carrozze continuavano a slanciarsi alla massima velocità. Gli sbirri impugnarono i fucili puntandoli contro l’importuno postosi sul loro cammino; braccia e mani vibravano tanto che un colpo accidentale sarebbe potuto partire da un momento all’altro. L’uomo con il cappello a cilindro nondimeno non manifestava inquietudini. Emma lo vide estrarre dal gilet un orologio da tasca e consultarlo. “Se smettete di importunare subito questa signora e le porgete le vostre sincere scuse eviterò che questo spiacevole episodio giunga all’orecchio di sua eccellenza il capo della polizia.”
Le ultime parole scatenarono un acceso mormorio nella folla in attesa di emozioni. Alcuni uomini in abiti popolani parlavano in fretta e facevano passare monete di mano in mano come se scommettessero sull’esito della disputa. Non ci volle molto a risolvere i dubbi dei curiosi, perché i due gendarmi dopo qualche istante si rimisero i fucili in spalla. Emma ascoltò scuse così imbarazzate da risultare incomprensibili e notò che gli uomini in divisa si allontanavano tra gli sberleffi della folla e le imprecazioni degli scommettitori perdenti. La gente prese a disperdersi. Emma si sentì leggera e grata mentre fissava l’uomo con il cappello a cilindro e il bastone d’argento. Ancora una volta provò una sensazione di familiarità. Lei conosceva quell’uomo. Ne era certa. Lo aveva visto molte volte. Ma dove, se non era mai stata in questo mondo?
Il gentiluomo le indicava qualcosa e solo allora Emma capì che la stava invitando a entrare nella sua carrozza. Dove lo aveva già visto? Ma si rese conto che la domanda da farsi era un’altra: dove lo sconosciuto aveva già visto lei?

venerdì 15 settembre 2006

Notte da non dormire


E’ una notte di mezza (o magari di tre quarti) estate, la notte adatta ai sogni scespiriani. Oscilli tra blog e chat facendo quello che si fa nelle notti di mezza estate quando ti senti solo. Parli con una donzella conosciuta sul blog. Hai già parlato diverse volte con lei in passato. Ti piace, la trovi attraente, vorresti incontrarla e farci quello che ogni uomo vorrebbe fare con una donna piacente. Insomma, ci vorresti andare a letto. Come si dice nelle sit-comedy ci vorresti fare sesso, espressione che è tra le più brutte mai inventate. Oltre a questa sensazione, legittima ma non certo poetica, la donzella virtuale con cui comunichi non ti ha trasmesso alcuna altra emozione degna di nota. Ti ha mandato alcune sue fotografie. Sai che è piacente, ha una gradevole conversazione, in alcune foto è venuta davvero bene, ma comunque la sua è la bellezza di una donna normale.
Poi viene questa sera estiva. Sei in chat. Parli come hai fatto altre volte, quando ti pare di avvertire qualcosa di diverso. Sei confuso, non sai nemmeno tu cosa sia quella sensazione. Però ti rendi conto che percepisci la tua interlocutrice virtuale in modo diverso. Improvvisamente l’incontro con lei sembra perfettamente possibile, sembra un evento reale che ha le stesse probabilità di verificarsi di un litigio in un reality show. Inoltre è successo un fatto stranissimo, perfino inspiegabile. Conversando con lei, forse per stanchezza, forse per malumore, le hai confidato certi particolari di te che ti mettono in cattiva luce. Sono cose personali di cui non vai fiero e che non hai quasi mai rivelato a nessuno. La tua conoscente virtuale però non batte ciglio. Non si dà alla fuga come avevi pensato. Ti accetta pure nella tua nuova veste.
Ti accetta come sei, non come appari sul blog. Questo fatto ti confonde. Ti accetta come persona, con tutti i tuoi difetti.
Provi un senso di riconoscenza che ti pietrifica e ti confonde. Ti pare di aver ricevuto un dono. Un dono unico e inatteso. Qualcosa che non potrai contraccambiare per quanto tu ti impegni. Finita la conversazione vaghi frastornato per la tua casa buia, fantasticando del prossimo incontro con la tua bella, ormai percepito come certissimo. Ti affacci al balcone e guardi nell’oscurità. Non hai la forza di fare niente, solo di pensare a come è strano il mondo. Non pensavi che sarebbe venuto un giorno in cui avresti provato ancora le sensazioni di questa incredibile notte agostana.
Passano i giorni. Passano le suggestioni di quella notte indimenticabile. Non definiresti amore ciò che hai provato mentre rimiravi obnubilato dal balcone il colore del buio. No, insomma, l’amore è roba passata, è l’emozione di un’altra vita. Andiamo, sei il primo a sapere che l’amore è un cibo per altre menti, più ingenue e meno ciniche della tua. Però quella notte di agosto hai provato qualcosa. Non erano le solite sensazioni. Era qualcosa che poteva farti capire cos’è questo sentimento. L’amore ti ha sfiorato una notte d’estate quando meno te lo aspettavi. Ti senti leggero e sbalordito allo stesso modo che se ti avesse sfiorato una pallottola mentre camminavi per strada.

martedì 12 settembre 2006

Neve


Mi piace la neve. Vorrei vederla. Vorrei toccarla.
Vorrei trovarmi in una casa con molta neve intorno. Una casa di tronchi d’albero, con una sola finestra da cui puoi vedere i fiocchi che scendono. Fiocchi e fiocchi. Fiocchi che galleggiano nell’aria tersa di montagna, e planano seguendo i percorsi dettati dal respiro del vento d’alta quota.
Vorrei addormentarmi in quella casa di legno e, la mattina, aprire la porta e trovarmi di fronte una distesa bianca fino a dove può spaziare lo sguardo. Neve e silenzio. E pace.

Non ho quasi mai visto la neve. A Napoli non cade un fiocco da una vita. Vent’anni mi dividono dall’ultima vera fioccata partenopea. Neanche allora fu questo gran spettacolo. Le strade arrivarono a coprirsi di bianco, è vero, ma fu poca cosa. Non avevi nemmeno il tempo di ridere e gioire per quello spettacolo meraviglioso che tutto si era sciolto. Ricordo come mi sentivo strano e come ridevo mentre camminando per strada ero testimone di quell’evento straordinario.
Napoli odia la neve. Nessuna altra città la odia così tanto, a quanto ne so. Nevica a latitudini molto inferiori, a Palermo, a Catania, nevica perfino nel deserto o in Israele, almeno a sentire i telegiornali, ma non nella mia città. Washington, situata a latitudini più meridionali di quelle napoletane, è investita da epiche tormente di neve; ed è così per molte località in tutto il mondo. La neve si tiene alla larga da Posillipo e Fuorigrotta e ormai, a causa dell’effetto serra, c’è poca speranza che in futuro tolga l’embargo a cui ha sottoposto la mia città.
A me la neve piace. Vorrei vivere in un luogo in cui cadesse quando è la stagione adatta. Ci starei bene in quel posto, lo so, specie se fosse in mezzo alla natura.

Aggiungo questo brano tratto da un mio commento perché rispecchia il mio stato d’animo meglio del post originario.

Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) del 1972 è uno dei western più belli di tutti i tempi e un film di assoluta qualità. Un dizionario del cinema il mio possesso lo inserisce tra i migliori film americani del secolo e parecchi critici considerano questo titolo il capolavoro del bravo regista Sydney Pollack (I tre giorni del Condor>, La mia Africa) soprattutto a causa dell’atmosfera fiabesca che lo pervade. La sceneggiatura è opera del valente John Milius (Un mercoledì da leoni), il protagonista è un Robert Redford, insolitamente barbuto, almeno nella prima parte del film, e taciturno.
La trama. 1850, Jeremiah Johnson è un ex soldato che se ne va a vivere sulle Montagne Rocciose. Compra una moglie indiana (di cui però poi si innamorerà) e adotta un bambino orfano. Gli indiani gli uccidono la famiglia perché un gruppo di soldati a cui fa da guida lo costringe a passare per un cimitero sacro. E lui si vendicherà spietato.
Ho rivisto qualche scena di questo capolavoro cinematografico ieri sera. Ciò di cui mi preme parlare sono soprattutto i paesaggi di questa storia. C’è neve quanta ne vuoi, sulle Montagne Rocciose. E freddo come non si è visto quasi in nessun film. Ma pur essendo magnifici, i grandi scenari montuosi di questo film sono diversi da storie similari. Qui la natura è davvero selvaggia. Le montagne spoglie e disabitate. Potresti aggirarti per mesi in quelle brulle lande nevose senza incontrare un essere umano, se non qualche indiano che ti spia invisibile in attesa di decidere se prenderti lo scalpo o no. Ciascun abitante dei monti (quasi tutti trapper) si tiene alla larga dagli altri, se non in casi eccezionali. Qui il tempo non ha alcuna importanza, né le normali incombenze della vita civile. Non sai che ora o che giorno siano e nemmeno ti interessa saperlo. A un certo punto Redford chiede a un vecchio trapper con cui ha fatto amicizia “In che mese siamo?” Quello si guarda intorno, annusa l’aria, riflette e quindi risponde (se ricordo bene): “A me sembra marzo, fa ancora troppo freddo per aprile”.
La natura di questo film parla. Recita. Ha una forza evocativa che ti conquista. Guardando il film ti senti piccolo, inadeguato di fronte allo spettacolo del Grande Nord. Soprattutto pensi che non hai bisogno di nessuno scopo per vivere in quei posti. Non devi cercare di realizzare questo o quello. Non devi guadagnare più soldi o ottenere uno scatto professionale, non devi conseguire risultati tangibili e una posizione sociale ammirata dai tuoi simili. Ti basta vivere, sulle Montagne Rocciose del film. Ti basta procurarti da mangiare e trovare un posto in cui dormire, ripararti dal freddo e dalla neve, ti basta tirare avanti fino a notte e poi fino alla notte successiva… questo è uno scopo esistenziale che ti appaga del tutto, senza lasciarti depressioni, insoddisfazioni, nevrosi da autorealizzazione. Sulle montagne di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo l’unico scopo della tua vita è vivere e basta, e sei felice se ci riesci.
Chiuderò con una frase del vecchio trapper amico di Redford. Quando il nostro eroe gli chiede “Cosa ci fai qui?”, quello risponde semplicemente: “Colleziono artigli d’orso”. Udendo queste parole non mi è passato per la testa nemmeno per un secondo che il vecchio trapper non avesse niente da fare e che fosse alla fin fine un fannullone nullafacente. Collezionare artigli d’orso e vivere mi è sembrato uno scopo esistenziale più che degno e appagante. Saluti a tutti.

venerdì 8 settembre 2006

La gioia di quando scrivi - L'idea


Te ne stai per i fatti tuoi quando sei fulminato da un’idea. Zac, senti proprio la frecciata del Cupido della narrativa. Non è niente di sofisticato, anzi è un fotogramma mentale così semplice da farti quasi vergognare. Sei tu - sei sempre tu alla fin fine il protagonista delle tue fantasie narrative - che salvi una donna da un grave pericolo. Oppure sei tu che ti butti da una finestra attaccato a una corda (non c’entrerà la solita donzella con gli occhioni blu da salvare?), o infine sei ancora tu che hai un tic irresistibile tipo voler morire, rubare gli oggetti intimi delle persone, dare in escandescenze udendo un particolare suono o avere un passato di cui tu stesso non sei a conoscenza.
Questa elementare immagine fattasi largo nella tua mente ti stecchisce come capita nei più appassionati amori. Sei in preda a un vero e proprio colpo di fulmine. Ami. Il tuo cervello e il tuo cuore godono, li senti perfino mugulare: “Ooooohhhh!”. Continui a pensare e a ripensare a come potresti arricchire il fotogramma mentale che ti ha sedotto. Ed ecco avvicendarsi dentro di te scene e scene. Personaggi si delineano. Frammenti di trama si rincorrono nella tua testa. E pensi. Fai l’amore con la tua mente senza sosta. Sei euforico. Crei centinaia di situazioni diverse, di complicazioni, di colpi scena. Attingi a tutto il tuo vasto patrimonio iconografico di libri, ma soprattutto di film. Trasferisci nella tua storia in divenire questo o quel personaggio cinematografico adattandolo alle tue particolari esigenze. E crei, crei. Ma sopra ogni cosa sei felice come poche volte ti è capitato nella vita.

Come ho gia detto, a mio vedere il momento più bello di quando scrivi narrativa, quello in cui sei euforico e ti percepisci come un dio minore, è ancora prima che inizi a scrivere, nel momento in cui hai solo un'idea in testa. Provi una gioia che è quasi perfetta, assolutamente non adatta a questo mondo prosaico, quando sei fulminato da quell’ideuzza e quando cominci a pensare che quello spunto potrebbe essere abbastanza robusto e originale da sostenere un romanzo.
Naturalmente quasi subito ti accorgi che la moltitudine di scene e situazioni che elabori come un computer impazzito non funziona. Spesso è roba banale, poco coinvolgente, che non supera un secondo approfondito esame mentale. Elimini una quantità impressionante di spunti narrativi dalla tua lavagna mentale, ma ciò che resta è comunque materiale abbastanza vasto da ispirare una decina di romanzi.
Dopo qualche giorno di giubilante estro mentale, decidi che è il momento di mettere su carta le creazioni mentali sopravvissute fin qui. E via con un altro genocidio di idee. Si sfoltiscono temi, frammenti narrativi, complicazioni. Si decide che quel particolare personaggio, che pure pareva una bomba di originalità, con la tua storia non ha niente a che spartirci. Ci si rassegna a eliminare una irresistibile trama secondaria che ci porterebbe fuori tema. Si taglia, si taglia. Si buttano a mare quintali di zavorra narrativa, per consentire alla tua mongolfiera letteraria di continuare a volare e se possibile salire nei più alti cieli artistici.

Quali amori, quali antidepressivi, quali droghe leggere o pesanti! Quali stimolanti! Non ti serve niente per essere su di morale. Nemmeno un caffè annacquato. Il mondo non ti può offrire niente, perché qui dentro hai già tutto ciò che ti rende felice.

Due esseri umani


Mi è venuta voglia di scrivere sul caso di Natascha, la bambina ora diventata ragazza, sequestrata per otto anni da Wolfgang, un amico di famiglia che oggi sarebbe quarantaquattrenne.
Prima di iniziare, alcune cose banali. Il rapimento della ragazzina è un atto aberrante, spaventoso. Se il rapitore non si fosse ucciso, solo la prigione a vita avrebbe potuto punire i suoi crimini. Sono contro la pena di morte, ma trovo lecito che si pensi di punire con l’esecuzione capitale delitti inauditi come questo.

La storia la conoscono credo tutti. Natascha fu rapita otto anni fa a Vienna, ne aveva dieci, da un tecnico elettronico e tenuta prigioniera in una cantina resa abitabile. Solo pochi giorni fa è fuggita dalla prigionia. Wolfgang il rapitore si è ucciso gettandosi sotto un treno appena saputo della fuga.

Ora dirò alcune mie impressioni avute udendo la notizia per la prima volta. Si tratta solo di percezioni dell’animo, niente di riflessivo. Pure e semplici congetture, probabilmente senza fondamento alcuno. La prima cosa che ho pensato udendo della fuga e del suicidio è che l’orco rapitore e la ragazzina, sia pure a loro modo, avessero sviluppato un sentimento simile all’amore. Il loro non era un rapporto tipo aguzzino che ti tortura e gode della tua sofferenza. Ho pensato che i sentimenti che uniscono le persone sono stranissimi e a volte stupefacenti e che in questo caso un forte legame aveva tenuto vicini, sia pure nel modo degenere sotto gli occhi di tutti, questi due esseri umani.
Otto anni sono estremamente lunghi, ho riflettuto. La ragazzina deve aver avuto decine, forse centinaia di occasioni di fuggire dalla sua prigionia. Deve aver avuto pure svariate occasioni di uccidere il suo aguzzino. Se non l’ha fatto ci devono essere state ragioni potenti e quelle ragioni possono risiedere solo nel campo dei sentimenti umani. La puoi chiamare sindrome di Stoccolma, la puoi chiamare affettività morbosa, oppure puoi pensare a questo come a un evento inspiegabile e ambiguo situato in qualche regione ai confini dell’amore. Non so cosa ci fosse, ma c’era. C’era questo sentimento che ha impedito alla ragazzina di fuggire.
Inoltre se uno ti tratta male, se uno ti tortura, o semplicemente se tu soffri perché vivi in una situazione angosciante, non vivi otto anni. Non ne vivi nemmeno due di anni. Natascha, questo ho pensato udendo la notizia, non percepiva la sua prigionia come un evento insopportabile. E forse durante questo lungo periodo è stata molte volte felice con il suo rapitore (anche se ciò evidentemente non rende meno atroce il crimine di cui questi si è reso colpevole).

C’è un’altra cosa che ho pensando udendo la notizia. Wolfgang il sequestratore non si è ucciso per la certezza di essere catturato e dover pagare duramente per il suo crimine. Non gliene importava molto di andare in galera o di morire, magari per mano del solito ergastolano con licenza di uccidere. Si è ucciso perché aveva capito che il suo amore - assurdo, malvagio e riprovevole quanto si vuole - era finito. Si è ucciso per amore come fanno tanti uomini, perché, nonostante l’enormità delle sue azioni, era un uomo pure lui. Non mi piace la parola mostro. La si usa spesso, quasi sempre a sproposito. Penso che siamo tutti uomini. Anche quando ci rendiamo colpevoli degli atti peggiori. Wolfgang, il tecnico elettronico e aguzzino, probabilmente cercava l’amore e non riusciva a trovarlo. Ha sofferto molto per questa mancanza, ma molto. Un giorno ha creduto di procurarsi questo agognato sentimento rapendo una ragazzina di dieci anni e sottraendola alla sua esistenza di normalità. Forse era mosso anche da uno spirito di vendetta contro l’universo femminile, non so. Nel suo modo malato amava Natascha, almeno così ho riflettuto quando i telegiornali davano la notizia. Sarebbe stato disposto a soffrire, anche molto, per lei, ma non a perderla. Quando ha scoperto che l’amore era finito e non sarebbe tornato più per tutta la vita, si è ucciso.

Queste erano solo mie impressioni epidermiche. Eppure sono state in un certo senso confermate da alcune dichiarazioni televisive di Natascha che ho ascoltato oggi. La ragazza era in buona forma: pareva in migliori condizioni di sue coetanee preda di anoressia, gravi depressioni o droga. Si esprimeva bene (con proprietà linguistica sottolineavano i commentatori) e, come io avevo sospettato, la sua dura esperienza la faceva parlare con la saggezza di una quarantenne.
Mi ha sorpreso soprattutto una sua affermazione, detta con una maturità impressionante, e con dolore: “Fuggendo sapevo di condannarlo a morte”.
Fuggendo sapevo di condannarlo a morte.
Questa non è la frase che dici al tuo aguzzino dopo otto anni di torture psicologiche e fisiche. Natascha sapeva che lui si sarebbe ucciso e sapeva i motivi per cui lo avrebbe fatto.
Fuggendo sapevo di condannarlo a morte.
Si era creato qualcosa tra questi due esseri umani. Io non so cosa fosse, ma c’era.
... sapevo di condannarlo a morte.
La vita è strana. Chi afferma di averla compresa è un illuso. Spesso ci imbattiamo in cose che vanno al di fuori della nostra esperienza, e ci confondono.
Fuggendo...

mercoledì 6 settembre 2006

La gioia di quando scrivi narrativa


Approfittando di una mia recente corrispondenza con un’amica del blog che condivide la mia passione per la scrittura, parlerò dei momenti più belli legati a questa attività. Quali sono gli attimi più appaganti di quando sei impegnato a scrivere un romanzo? Quand’è che ti senti pieno di energie titaniche e di titaniche euforie? Quand’è che gioisci e quando ti senti un cadavere intento a suicidarsi su una storia che sembra spazzatura? Naturalmente questi stati d’animo sono legati a esperienze personali. Ciascuno è fatto a modo suo e reagisce agli stimoli in modo diverso. Tuttavia da ciò che ho letto posso affermare, sia pure con tutte le cautele e i distinguo possibili, che quanto dirò ha un certo fondamento e risulta abbastanza condiviso dalla maggior parte degli scrittori. (Mi considererò in questo e nei post seguenti uno scrittore a tutti gli effetti, anche se non ho conseguito nessun risultato degno di nota in questo campo; più o meno mi baserò sul presupposto che se respiri e mangi e ami sei un uomo, anche se non hai fatto nulla che ti qualifichi come tale… e se scrivi e soffri e gioisci facendolo, allora sei uno scrittore, anche se nessuno ti riconosce in questa veste.)

Parlerò con più dettagli della gioia collegata all’atto di scrivere narrativa nelle prossime puntate. Qui posso dire soltanto che secondo la mia esperienza personale io provo il massimo del piacere, uno stato d’animo di pura esaltazione addirittura, quando ho l’idea per un romanzo, quando sviluppo quell’idea, la arricchisco di complicazioni e quando infine la giudico sufficientemente robusta e originale per sostenere una storia da sviluppare su qualche centinaio di pagine (il fatto che io la giudichi degna non significa ovviamente che lo sia davvero). Da questo momento di gioia quasi perfetta, di idillio amoroso unico con la narrativa, c’è una costante perdita di felicità sino alla fine del romanzo (la gioia si muterà in profonda infelicità, fonte di memorabili incazzature, durante le operazioni che sei costretto a svolgere dopo aver scritto la parola fine sulla tua storia).
Appuntamento alle prossime puntate agli interessati a questi temi. :-)

lunedì 4 settembre 2006

Soave gola di vergine


Sai che c’è, amore mio, tesoro, vita mia? Ho una gran voglia di baciarti la gola, la gola eburnea, proprio sotto il mento, dove sei tenera e sensibile, vorrei pure darti qualche piccolo morso su quella gola tenera, senza farti male, fanciulla, con delicatezza, vorrei appagarmi con la tua gola indifesa, fresca e bianca, deliziosa da addentare, e vorrei che tu me la offrissi senza timore, vorrei che ti abbandonassi al mio volere e che mi porgessi il collo con piena fiducia.
Dai, rilassati. Non ti faccio male. O almeno solo un pochino. Sta’ calma, abbandonati a me. Ecco, li senti? Li senti i miei canini pulsanti che lambiscono la tua pelle innocente? Senti quanto è grosso e duro il mio desiderio contro il tuo ventre? Aspetta, ora. Aspetta che le mie narici dilatate si colmino del tuo profumo di donna. Ahhhhh, come odori di femmina. Sei femmina, femmina. Sei femmina e sei mia. Ora con la lingua assaggio il velo di sudore della tua pelle. Sai di buono, lo sai? I tuoi profondi umori di giovane donna hanno un gusto unico. Però non posso fermarmi, tenera e delicata fanciulla che ti abbandonasti tra le mie braccia. Non ti spaventare, sentirai una piccola puntura sulla gola. Sono i miei denti che graffiano la tua pelle seducente e ne fanno uscire una goccia del rosso liquido che scorre di sotto. Appena una goccia, anima mia, gioia di questi occhi, dolce miele. Eccola, la vedo, è rossa e desiderabile come te. Ora intingo la punta smaniosa della lingua nel rosso nettare che sgorga dall’epidermide trafitta dall’amore. Ooohhh, non posso spiegare come godo mentre faccio passare quella goccia di sangue per tutto il palato e ne trattengo il soave sapore nella bocca il più a lungo possibile. Ecco, le ho fatto varcare le mie fauci ardenti e l’ho fatta mia.
Basta, amore mio, non recherò più nessuna ingiuria alla tua vergine gola. Per me il tuo collo da cigno sarà un santuario inviolabile. Nondimeno, luce delle mie stanche pupille, consentimi di lappare quel rivolo di sangue che ti imbratta la pelle. Ci vorrà un attimo.
Non muoverti, ti imploro, mentre ti lecco il collo, perché un tuo movimento inconsulto potrebbe portarti a immolarti contro le mie zanne eccitate e allora niente mi tratterrebbe dal suggere tutta la tua linfa vitale, mentre godo come un osceno mortale.

sabato 2 settembre 2006

Oggi te veche e n'ata manera


Oggi te veche e n’ata manera.
Nun te veche pazziarella, ma c’a faccia seria.
E faie divintà serio pur’ammé quanno te penzo.
Oggi non sì na guagliona, ma na femmena. Na femmina ca me fa arrevutà ‘nguorpo.
Nun ‘o saccio pecché me faie sta ‘mpressiona.
O forze ‘o saccio, ma nun ‘o vvoglio dicere.
Oggi me sento stunato, e o ‘vvuò sapé chi è ca me fa sentì accussì?

Aieressera me vereva cammenà ‘nzieme a te int’'e viche e Napule.
Era chillu vico ra Miezucannone ’o Gesù Nuovo.
I’ te parlavo e tu me stive a sentì.
Comm’ire bella!
Nun m‘ammeretavo e cammenà vicino attè manco dint’e penzieri e sta capa ‘ntrunata.
Nun facevemo niente i’ e te, parlavemo e rirevemo e stevemo bbuono ‘nzieme.
Nu paro e vote t’aggia tuccato ‘e mmane e allisciato e capille pe pazzìa, ma ‘o ciato m’ammancava sulo quanno ce uardavemo.
Int’'a chillu mumento fernevemo e rirere e pazzià e tutt’e dduie spustavemo ‘lluocchie pecché chilli sguardi c’appicciavano ‘nguorpo.
Nun ce simme rato manco nu vaso, ma chi so scorda cchiù stu suonno allerto!

Oggi te veche e n’ata manera.
Si’ ‘na femmena, si’ ‘a femmena mia ccà dinto.
Oggi tutte ‘lluommene se magneno ‘e mmane pe’ sta femmena e fuoco ca fa ammore cummè.


Sono contrario alle traduzioni dal dialetto perché mi pare che alterino il senso di quanto si dice. Però è probabile che qualcuno non afferri tutto di quanto ho detto. Se potete farne a meno, comunque, evitate di leggere la traduzione qui sotto (credo che il testo sia chiaro anche per un non napoletano).

Oggi ti vedo in un altro modo.
Non ti vedo senza pensieri, ma con la faccia seria.
E fai diventare serio pure me quando ti penso.
Oggi non sei una ragazza, ma una donna. Una donna che mi fa bruciare dentro.
Non lo so perché mi fai questa impressione.
O forse lo so, ma non lo voglio dire.
Oggi mi sento confuso, e lo vuoi sapere chi è che mi sentire così?

Ieri sera mi vedevo camminare con te nei vicoli di Napoli.
Era quel vicolo da Mezzocannone al Gesù Nuovo.
Io ti parlavo e tu mi stavi a sentire.
Come eri bella!
Non meritavo di camminarti al fianco nemmeno dentro i pensieri di questa testa scombinata.
Non facevamo niente io e te, parlavamo, ridevamo e stavamo bene insieme.
Un paio di volte ti ho toccato le mani accarezzato i capelli per gioco, ma il respiro mi mancava solo quando ci guardavamo.
In quel momento finivamo di ridere e giocare e tutti e due spostavamo gli occhi perché quegli sguardi ci incendiavano dentro.
Non ci siamo dati neanche un bacio, ma chi se lo dimentica più questo sogno da sveglio!

Oggi ti vedo in un altro modo.
Sei una donna, sei la mia donna qui dentro.
Oggi tutti gli uomini si mangiano le mani per questa donna splendida che fa la mia innamorata.