mercoledì 29 novembre 2006

Sentire Dio per strada


Ieri sera fa camminavo per strada e riflettevo. Erano i soliti pensieri banali che accompagnano la mia esistenza, e forse quella di tanti altri. Un po’ di insoddisfazione per come vanno le cose, qualche fantasia su personaggi femminili incontrati per strada o conosciuti sul blog, le immancabili suggestioni natalizie scatenate da cartelloni pubblicitari o insegne luminose in anticipo sui tempi.

Quando ecco che a un tratto sono stato preso da un pensiero improvviso e soprattutto sorprendente. Era un pensiero nitido, chiarissimo. Lo sentivo proprio espandersi nella mente senza incontrare ostacoli di sorta e soprattutto senza essere intorbidito da nebbie cerebrali.
Nei brevi momenti in cui sperimentavo queste sensazioni mi chiedevo se Dio esiste. Però non me lo chiedevo a livello filosofico. Non cercavo di accumulare nella mente prove a favore o contro questa ipotesi. In quegli attimi non pensavo alle teorie scientifiche o agli assiomi religiosi che argomentano sulla presenza o meno dell’Entità Suprema. Niente di tutto ciò. Mi è accaduto semplicemente di guardarmi in giro, di osservare i palazzi, la strada percorsa da macchine frenetiche, il cielo scuro, i tanti passanti sconosciuti che mi incrociavano sbirciandomi per un attimo, mi è accaduto perfino di guardare l’aria densa e giallognola sospesa tra due lampioni stradali… e di chiedermi: Dio è qui? E’ in questo posto? E’ nell’aria intorno a me? In queste molecole che mi circondano? Nello spazio tra questi palazzi, nei carrelli di quel supermercato? E’ qui, Dio? E’ intorno all’insegna di quel Blockbuster che vende usato garantito a quattro e novantanove? E se fosse così vicino da poterlo perfino toccare?
Erano pensieri tanto strani che mi chiedevo se ero io a farmeli o un altro. Mi sembrava quasi di essere in un posto diverso da quello che percorrevo di solito. Mi sono fatto quella domanda solo per pochi secondi, ma con un’intensità che ha stupito me per primo. Ricordo di aver alzato pure la testa per guardare le sommità dei palazzi. Non so perché l’ho fatto. Ma so cosa mi chiedevo in quel momento.
Il tempo di fare pochi passi, che mi è passato tutto. La domanda era sparita, semplicemente non esisteva più. Mi sono detto che Dio non c’era, non era presente intorno a me. Niente di ciò che sarebbe successo in seguito sarebbe stato influenzato da volontà sovrumane. Forse un’automobile avrebbe sbandato mettendo sotto me o qualcun altro e ciò sarebbe dipeso dalla pura casualità. Forse un tizio strambo che passava di lì avrebbe dato fuori di matto sparando sulla folla… e anche questo sarebbe stato un evento del tutto fortuito. Mi sono detto che intorno a me non percepivo la presenza di nessun Dio, ma solo del Caso. Non c’erano Entità, ma solo Probabilità. Nessun Disegno, nessun Progetto, Niente.
Eppure mi sono sentito strano in quei brevi momenti. E' una sensazione che non scorderò.

Non sono un credente, tuttavia non mi ritengo nemmeno un ateo. Agnostico è la parola che spesso uso parlando di certi temi. In ogni modo mi pare inconcepibile che io sia qui a disquisire di queste cose. Come ho detto in un vecchio commento noi non dovremmo essere qui. La condizione naturale delle cose o dell’universo, per così dire, dovrebbe essere il nulla, il non essere. Anche l’esistenza di un solo atomo è uno schiaffo a qualunque logica.

lunedì 27 novembre 2006

Il blillante e onolevole agente lettelalio 3


Parte terza: l'incontro - Mr Livingstone, I presume?

Ovviamente arrivo alla stazione Termini in netto anticipo. È imperativo non partire con il piede falso arrivando magari tardi all'appuntamento. Mi posiziono davanti al bar dalla caratteristica insegna e cerco di non sembrare un terrorista kamikaze in attesa dell'orario di punta. Una commessa del MacDonald's mi guata con sospetto, e io le faccio l'occhiolino, gesto che mai avrei concepito in uno stato d'animo normale. Si avvicina l'orario prestabilito. Fisso tutti i signori con aspetto da professionisti intelligenti, gente che si situi a mezza strada tra uno psichiatra della scuola di Jung e un frequentatore di salotti letterari esclusivi. Cerco con gli occhi un personaggio ben piantato, alto, vestito magari con un trence londinese accoppiato a una giacca di tweed, con l'alito che profuma di tabacco da pipa dello Yorkshire, il quale mi interpelli più o meno con un "Mr Livingstone, I presume?". Un paio di signori simili alle mie aspettative mi sfilano accanto senza degnarmi di uno sguardo. Quindi mi sento tirare per un gomito: "Lei deve essere la persona che aspettavo". Dio mio, eccolo qui! Trasecolo, boccheggio. Davanti a me c'è un ometto che avrà cinquant'anni e ne dimostra perlomeno settanta [dirò poi la reale età di questo signore NdR]. Barba all'agitatore politico ottocentesco. Pantaloni e giacca di jeans consunti, aria sfatta da barbone, spallucce da riformato alla visita di leva e una vocina sgradevole più acuta di quella che serve per cantare "Anima mia". Penso a un errore, ma il barbone, l'accattone, dimostra di conoscermi. È lui, è l'agente letterario. Mi servono due o tre buoni minuti, ma mi riprendo. Quest'incontro inizia in modo inusuale, mi dico, ma dopotutto quella poca cura per l'aspetto fisico è senz'altro una qualità. Dimostra che il mio interlocutore basa le sue fortune professionali su competenza e capacità.

Il tempo di uscire dalla stazione, sotto il bel sole di Roma, ed ecco un nuova sorpresa. Il mio interlocutore mi mostra il suo mezzo di locomozione. E' forse una fuoriserie di quelle che nella pubblicità preferisci a una Miss Italia? E' una fiammante berlina cinque porte ancora in garanzia? E' una utilitaria vecchiotta ma dignitosa che fa ancora il suo lavoro alla grande? Niente di tutto questo. Il suo mezzo di locomozione è un ciclomotore vecchio di almeno trent'anni, una specie di Ciao della Piaggio che sarebbe stato considerato un catorcio ai tempi in cui Ronald Reagan faceva l'attore. Il potente mezzo di trasporto è assicurato a un palo metallico con una catena enorme, che con tutta evidenza ha il compito di dissuadere i ladri dall'impadronirsi di quel gioiello della meccanica. Il grande agente letterario, mandandomi un po' di forfora sulle scarpe, mi informa che a circa quattrocento metri c'è una grande libreria romana, la Mel Books, fornita di bar. Per un attimo avvampo di vergogna, temo che mi chieda di salire sul risicato sedile posteriore del suo catorcio per condurmi alla nostra nuova destinazione. Però il destino ha pietà di me. Il barbone, cioè l'agente letterario, mi spiega che il suo ciclomotore non può portarci tutti e due (bella forza, c'e da chiedersi come riesca a reggere una sola persona pur denutrita come il mio interlocutore) e mi chiede se posso raggiungere a piedi la libreria. Sollevato dalla gogna evitata, scatto deciso a stargli alle costole.

Ecco finalmente il bar della Mel Books. Arrivano i caffè al nostro tavolino e parliamo. I nuovi complimenti per quanto ho scritto e la previsione della mia imminente e luminosa carriera letteraria mi fanno scordare il look da barbone, la vocetta da Cugini di Campagna e perfino il ferrovecchio a due ruote, che forse ho solo immaginato. A un tratto noto che ho bevuto il mio caffè da un pezzo e che il mio interlocutore il suo non l'ha ancora toccato. L'agente letterario intanto ha superato la fase dei complimenti e del suo proposito di riprendere il romanzo nel cassetto. Ora mi spiega che lui viaggia molto. Adora farlo. Con la sua ragazza (ragazza? ma non aveva settant'anni?) è stato in Sicilia, Abruzzo, Veneto, dappertutto. Ama l'Italia, per lui è la nazione più bella del mondo. Spesso, mi dice en passant, lo ospitano gli scrittori che hanno contatti con la sua agenzia letteraria. L'ultima volta è stato due settimane in provincia di Catania, a casa di uno scrittore gran compagnone. Ah, loro due con le rispettive ragazze hanno passato un periodo straordinario! Purtroppo non è mai stato a Napoli, dice con rammarico. Mi guarda come se dovessi capire qualcosa, ma io non capisco un bel niente. Allora lui spiega che splendido posto è la Città del Sole e che gente unica la abita, sono davvero fortunato a vivere lì. Ancora un suo sguardo, ma la mia faccia da ebete non vuole saperne di schiarirsi. A proposito di Napoli, continua allora l'agente letterario, lui progetta di andarci in quel periodo, forse addirittura il mese prossimo. Mi fissa ancora una volta, e a questo punto anche un individuo ritardato come me crede di afferrare qualcosa. Tossendo imbarazzato, gli dico che purtroppo non posso ospitarlo. Passo almeno due minuti a scusarmi di quella fatalità. L'agente letterario mi assicura che non c'è niente da scusarsi, lui (anche se poco ci mancava che si invitasse da solo a casa mia) non aveva affatto considerato questa eventualità. E' il momento della consegna dei preziosi manoscritti con cui voglio fare colpo. Il mio interlocutore a malapena li guarda, anche se giura che li leggerà con la massima attenzione.

Il suo caffè intanto è ancora lì, anche se io devo aver finito il mio da ore. Perché diavolo uno ordina un caffè se poi non vuole berlo? Capisco tutto quando passa un barista che ci guarda in cagnesco mentre porta via le tazze vuote da un tavolo vicino, subito occupato da clienti in attesa. Ho una rivelazione. Se l'agente letterario avesse bevuto il caffè, il barista avrebbe portato via le tazze vuote, il che ci avrebbe costretto o ad andarcene (e magari a continuare la conversazione seduti su un marciapiede romano) o a compiere una scelta che il mio conoscente sembrava considerare anche peggiore, cioè fare una nuova ordinazione. L'impazienza dei baristi nei nostri confronti ormai è palese; sbattono le posate nei pressi del nostro tavolo e ci indirizzano frasi derisorie sempre meno dissimulate. A un certo punto anche un individuo dalla strenua resistenza come il grande agente letterario deve cedere agli attacchi ormai frontali e beve il caffè a più di due ore dalla sua consegna. Non accenna neppure a fare una nuova ordinazione. Il caffè è finito e dunque è finita pure la nostra conversazione. Ci avviciniamo alla cassa. Mi dice che offre lui. Giura che è suo dovere e che non vuole sentire proteste da parte mia. Ma al momento di tirare fuori i soldi è preso da amnesia. Non trova il portafogli. Divento un peperone mentre si rovista in tasca sotto lo sguardo scettico della cassiera, che dà l'idea di conoscere il tipo. Non resisto alla vergogna. Pago la cassiera e me la filo a spron battuto inseguito dalle ironie dei baristi poco distanti. Il mio nuovo conoscente ha una faccia di bronzo che non fa una piega. Dice che l'ho offeso pagando al suo posto. In ogni caso la prossima volta offrirà lui, su questo non ci piove. Delle volte sono un ingenuo senza speranza, è vero. Eppure, mentre usciamo dalla Mel Books e ci avviamo al catorcio potentemente assicurato a un lampione, anch'io ho ormai capito che non ci sarà mai una prossima volta in quell'individuo pagherà qualcosa a qualcuno. Mentre saluto il grande agente letterario che mi ha indotto a cantare di "cavigliere del Kathakali" o dei "danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti", penso alle parole di Giorgio Chinaglia e al suo pessimismo leopardiano sul mondo e su chi lo abita.

mercoledì 22 novembre 2006

Il blillante e onolevole agente lettelalio 2


Cantando sotto la pioggia

Il giorno è quello di alcuni anni fa. Ho mandato il mio romanzo a un po’ di case editrici illudendomi che il lavoro preparatorio mi abbia guidato verso le sedi e le persone interessate a esaminare il mio lavoro. Però stavolta decido di tentare una strada nuova.
Esistono pure gli agenti letterari, no? rifletto. E gli agenti letterari, da quel poco che si sente in giro, sembrano appartenere a una razza di eletti dotata del potere di farti pubblicare e avere successo. Occhei, mi dico, vediamo cosa ne pensa questa razza sovrumana del mio romanzo. Mi tuffo in una rapida ricerca su internet per eliminare le agenzie letterarie a pagamento: quelle del tipo “mi paghi duecento cocuzze per ogni cento pagine che fingo di leggerti”. Quindi ecco qui. Ho l’agenzia che fa al mio caso. Importante. Conosciuta. Stimata perfino. Con noti scrittori tra i suoi clienti. E non prende soldi per leggere il tuo lavoro. E’ lei, non ci sono dubbi. Se fosse una donna, me la sposerei su due piedi. Una telefonata per accertarmi che è tutto oro quello che luccica e via, mando il romanzo.

Sono passati sei mesi. E’ vero che il tempo vola, ma tutto questo tempo senza risposte non mi induce all’ottimismo. Ho perso le speranze, ma tanto per curiosità faccio una telefonata. “Che ne avete fatto del mio romanzo?” dico all’agente letterario che ho la ventura di contattare.
“Quale romanzo?” risponde. “Qui non è arrivato niente di suo.”
“Guardi”, dico io, “magari non vi è piaciuto, ma arrivare è arrivato. Ho anche la ricevuta di ritorno della raccomandata.”
“Io non ho trovato niente, ma aspetti qualche giorno che faccio una ricerca.” Il mio interlocutore parla come se i vasti locali della sua agenzia fossero invasi dagli scritti di tutto il mondo.
Accetto di buon grado. D’altronde che altro posso fare? Faccio ancora un paio di telefonate, distanziate da alcune settimane per non farmi la nomea di rompiscatole (nonostante la mia scarsa esperienza editoriale ho già capito che in certi ambienti devi muoverti in punta di piedi come Harvey il maggiordomo di Elisabetta).
Alla terza o quarta telefonata, il colpo di scena. Che dico colpo di scena. Il terremoto. Lo tsunami, il maremoto, l’onda anomala, la potente scossa tellurica che cambia la struttura stessa del pianeta. L’agente letterario dice che ha trovato il mio romanzo dopo laboriosa ricerca. Non solo, ma l’ha pure letto tutto. Non solo, ma gli è pure piaciuto senza remore. E’ rimasto conquistato dal mio stile. Lo ha letto tutto d’un fiato. Infine l’affondo che minaccia di uccidermi: giura che fatto le ore piccole a casa sua perché non riusciva a staccare gli occhi dalla mia prosa. Voleva sapere come andava a finire.
Fulminato, non riesco a spiccicare parola. Penso a uno scherzo, ma il mio interlocutore è serio. Dice che ho talento. Talento, che stupenda parola! Non solo, ma ho anche le potenzialità per vendere bene. Certo bisogna correggere alcune cose che non vanno, dare una ritoccatina al finale, ma il grosso del romanzo va a meraviglia. Muto, rimango pietrificato con il telefono in mano, più o meno nella stessa posizione e con lo stesso eloquio dell’unica volta che ebbi il coraggio di chiamare a casa Giovanna detta Vanna, ossia la più bella e impossibile ragazza della mia classe al liceo.

Seguono altre telefonate. Il molto onorevole agente letterario non cambia versione ed è prodigo di elogi. Passo il tempo per le strade del mio quartiere cantando a tutta voce (quando piove e penso che nessuno mi veda) “Voglio vederti danzare” di Battiato. Cantare Battiato va bene, mi dico a un certo punto, ma qualche informazione aggiuntiva sull’agenzia letteraria non guasta. Nuova ricerca con Google. I risultati sono ottimi. Su internet è descritta come agenzia letteraria seria, con molte succursali in Europa, Sudamerica e altrove. E’ roba grossa. Però non mi basta ancora. Sarò anche pignolo da fare schifo, ma faccio un’ultima indagine. Vado nella più grossa libreria napoletana, la Guida, che guarda caso è anche una casa editrice di un certo nome. Mi vergogno non poco, ma faccio le domande che mi sono preparato. Una gentile direttrice editoriale mi dice di dormire sonni tranquilli. L’agenzia di cui parlo è simbolo di serietà e competenza. Anche la casa editrice della grande libreria ha numerosi e proficui rapporti con essa. Anzi, sapendo che l’agenzia mi ha proposto un contratto editoriale pluriennale, la mia interlocutrice si complimenta con me come se fossi già uno scrittore di best-seller e non un pinco pallino che non ha mai visto in faccia un editore degno di questo nome. Ho sentito abbastanza. Non ho più dubbi. L’attesa maledetta è finita. Faccio uno sforzo immane per non mettermi a cantare “Cuccurucucù Paloma" nella libreria.
Prendiamo un appuntamento, dico io e il grande agente letterario che con lo schiocco di due dita può fare la tua fortuna. L’appuntamento è un po’ strano. Non in uno studio elegante con poltrone che odorano di successi letterari, ma alla stazione Termini di Roma. Per la precisione davanti a un bar che ha l’insegna fatta in un certo modo e che confina con un MacDonald’s. Niente di male. L'appuntamento originale darà un profumo di avventura alla mia trionfale entrata nel regno della letteratura.

Continua nella prossima e conclusiva puntata.

lunedì 20 novembre 2006

Cercasi giovane schiava disperatamente


Allora, come la vogliamo? Bella, certo, e chi dice di no. Con le curve al posto giusto, anche questo era scontato. Facciamo un modello Marilyn Monroe? No, non ha capito, non mi riferivo al suo classico 90-60-90, bensì al rapporto fianchi, vita, seno. Le dimensioni le possiamo pure diminuire, se lei è d’accordo, ma le proporzioni tra queste regioni anatomiche devono essere preferibilmente di due (la vita) a tre (i fianchi e il seno). Bene, vedo che conviene sulla questione. Definiamo dopo i dettagli, non c’è fretta, comunque le anticipo che il modello 80/85 va che è una bellezza.
Ora però affrontiamo un tema piuttosto delicato. Va bene dell’età che le mostro? Come dice? La vuole più giovane? Certo, comprendo perfettamente il suo desiderio, una donna giovane, smaaack, è una cosa più meravigliosa di tutte e Sette le antiche Meraviglie. Vediamo, forse sarà interessato a questa fascia generazionale. Ecco, fresca, sbarazzina, spumeggiante. Ancora non ci siamo? Dice che dobbiamo scendere un pochino con l’età? Niente paura, abbiamo vasti argomenti in questo settore. Questo è di certo ciò che sta cercando. Dovrà riconoscere che è abbastanza giovane anche per lei, un gioiello. Vedo che annuisce.
Mi faccia riflettere un attimo. Ora verrebbe il profilo psicologico. E’ una cosa importante come e in certi casi più dell’avvenenza fisica, ma non devo spiegarlo a una persona sagace come lei. Ci mettiamo un po’ di pepe e la scegliamo intraprendente e dotata di una buona conversazione? Come dice? Non sa che farsene del pepe e men che meno della conversazione? Dice che per conversare le bastano e avanzano le lunghe chiacchierate fatte con il suo cane Fido quando lo porta a fare la cacca la sera? Se pepata non le piace, possiamo deragliare verso il modello casalinga senza grilli per la testa. Nemmeno casalinga la vuole? Pensa che prima o poi tutte le casalinghe diventino disperate come nella nota serie televisive e che, se non ti riempiono di corna con qualche bellimbusto di internet, un giorno ti faranno ammattire con la loro petulanza? In effetti devo riconoscere che il suo ragionamento non è del tutto infondato. Allora, guardi cosa le propongo. Questo è proprio ciò che fa per lei. Il modello “a schiava”. Niente scatole rotte, nessuna voglia di polemizzare, nessuna ambizione di contestare la sua autorità ed egemonia nella coppia. Dato che questo articolo è molto richiesto, possiamo offrirle la suddetta tipologia umana in alcune varianti. Osservi pure con calma. Ecco, ilota, no, che ha capito? Non le ho detto idiota, ma ilota, come uno schiavo dell’antica Sparta, è uno dei modelli che le proponiamo. Poi abbiamo l’esemplare giovane schiava romana, la serva della gleba merovingia e infine l’indefessa lavoratrice da piantagione di cotone virginiana. Su richiesta, possiamo anche sottoporle altre tipologie non comprese nel catalogo. Ottimo, mi compiaccio per la sua scelta, anch’io reputo che il modello giovane serva della gleba andrà benissimo per lei e la renderà pienamente soddisfatto.
E ora diamo l’ultimo tocco a questa fresca e procace schiava d’alcova. La preferisce intelligente, spiritosa, riflessiva? Come? Non potrebbe fregargliene di meno di una donna intelligente? E l’unica cosa spiritosa che si aspetta da lei è starsene zitta pure a letto quando, come dire, lei la strapazza per bene? Oca, allora? Che rida sempre, anche a sproposito? Che rida facendola sentire un grande umorista anche se l’ultima sua battuta degna di questo nome l’ha fatta in quinta elementare? Certo, capisco la sua scelta. Barri pure la casella in basso alla sua sinistra. Bene, abbiamo finito con il questionario, grazie per aver collaborato al nostro sondaggio intitolato “Scegli la donna ideale del terzo millennio con cui vorresti dividere la vita”.

Di recente ho letto un sondaggio sugli elementi considerati attraenti nell’altro sesso. Non era un'indagine scientifica, ma comunque dava risultati interessanti. Al di là della dolcezza e della gentilezza che entrambi i sessi considerano prerequisiti indispensabili per iniziare un rapporto interpersonale, le risposte divergevano su alcuni punti qualificanti. Gli uomini preferivano una partner pacata e femminile (cioè che non mettesse in discussione la loro egemonia nella coppia), non situavano l’intelligenza in cima alle loro preferenze e mostravano una chiara inclinazione verso partner giovani. Le donne d’altra parte segnalavano caratteristiche come l’intelligenza, il senso dell’umorismo (molto gettonato), e la condizione economica o sociale. Le interrogate femminili palesavano un’attrazione anche per maschi più maturi, purché con una solida posizione sociale o patrimoniale (è noto che i principi azzurri non sono morti di fame). Naturalmente esistono delle ragioni biologiche per queste diverse priorità nel modo di considerare attraente un partner (esse sono frutto delle diverse strategie sessuali adottate nel corso dell’evoluzione dall’uomo e dalla donna, e forse un giorno arriveremo a parlare di questo punto). Poi è chiaro che ci sono grosse differenze percettive all’interno di entrambi i campi sessuali.

mercoledì 15 novembre 2006

Capitana, Mia Capitana


- Ragazzi, basta con la scuola nozionistica e antidiluviana a cui siete abituati. So che sono solo una supplente, ma credo di avere tempo sufficiente per liberare le vostre menti e insegnarvi a pensare da uomini. Da oggi si cambia registro. Il nostro scopo non sarà memorizzare a pappagallo vuote date storiche o versi da recitare con l’affabulazione gigionesca di un Gassman. Con il mio contributo, vi sbarazzerete degli orpelli tipici di questo obsoleto e reazionario sistema scolastico. Darete sfogo alle grandi potenzialità rinchiuse nei vostri giovani cervelli. E coglierete l’attimo fuggente, succhierete il midollo stesso della vita.
“Nelle mie ore di lezione partiremo da un solido concetto. L’uomo è niente senza poesia. La poesia, e la nostra capacità di crearla e apprezzarla, è ciò che ci rende esseri speciali su questa terra. Certo la medicina e l’avvocatura sono professioni rispettabili e utili alla società, ma cosa sarebbe l’uomo senza la sua aspirazione al bello? Voglio che apriate il libro di testo portandovi sull’introduzione scritta dall’esimio professor Petronio. Ci siete? Strappate l’introduzione del vostro testo letterario. Forza, non abbiate paura. Anzi, buttate pure i vostri libri di testo. Ora passo per i banchi con il cestino della carta straccia e voi ci ficcherete dentro il vostro antiquato e retorico mattone di letteratura italiana.”

- Bene, ora possiamo procedere con la nostra lezione. Qualcuno di voi sa dirmi che cos’è il barbarico YAWP?... Bravi, vedo che conoscete Walt Whitman. Ma l’importante non è conoscere il significato di certe parole, bensì viverle, penetrarne l’essenza profonda. Per esempio, tu del secondo banco, sì, dico a te, robusto e ben piantato, come ti chiami?
- I-iiiiio, s… signora p-pro-professoressa?
- Non essere così ingessato e formale, l’imbarazzo fa parte della scuola accademica e nozionistica che ci siamo lasciati alle spalle.
- Pe-Pe-Persichetti. Pe… Persichetti Giuseppe.
- Allora, Persichetti, sapresti farmi un barbarico YAWP che risuona sopra i tetti del mondo come se lo emettesse il Grande Poeta?
- U-uuuu… u-uun ba-ba-barbarico… ?
- Certo, non essere timido. Fammi uno YAWP che renderebbe orgoglioso il vecchio Walt.
- Ii-iii…eummmmmm….hhmmmm.
- No, ma che fai? Quello sembrava lo squittio di un topo, non aveva niente di barbarico. Il tuo deve essere un grido di liberazione. Un rombo che sorvola le guglie dei più alti grattacieli.
- Non ssss-ssssooo se ne sono caaaaaaaa… aaaaaaapppp….
- Aspetta, Persichetti, ti aiuto a entrare nel lirismo di Whitman. A cosa ti serve la tua vecchia insegnante, se non ti soccorre nei momenti di difficoltà?
- Ccccccoooooo…. C-c-ccoooossssssssa fa, p-professoressa?
- Niente, ti slaccio la cintura e ti tiro giù i pantaloni non vedi? A proposito, che cosce muscolose hai, Persichetti! Fai sport, vero? Mmmmm. Come sono sode! Ora voglio che sentir crescere dentro il tuo stomaco il barbarico YAWP. Ci sei?
- P-p-p-pe… peeeerché mi tira giù le m-mm-mmm… uuuuuhhh.... le muuuuuu... tande, p-professoressa?
- Non ti formalizzare su questi decadenti pudori da borghesia accidiosa. Come vogliamo fondare un mondo emancipato se ci facciamo soggiogare ancora da frusti vassallaggi bigotti? Rilassati, sennò il resto della classe non può seguire la lezione. Allora, lo senti crescere il grido di sdegno? Lo senti ingrossarsi?
- Ssssss-ssssss.... ssssiiiignora p-p-p-p-p-rrooooffffff.... se lei lo tocca in qu-cucù… in qu-cucù-uuuel modo è chiaro che creeeeesce…
- Non essere così teso, è tutto sotto controllo, Persichetti, non farti fuorviare dalle ipocrisie della scuola reazionaria. Però come sei dotato, complimenti. Allora, fa crescere un indignato YAWP dentro di te. Lo senti che si gonfia? Non riesci più a contenerlo, tra poco vorrai liberarlo senza freni.
- La prego, no-non lo prenda in booooo... in booooo… in bo-bobò… in bobò… ccaaaaaaa.
- Fallo, fammelo adesso. Libera il tuo sdegno titanico contro le ingiustizie, fustiga ogni moralismo e grettezza.
- La s-ssssss… scongiuro di stare attenta co-cocò… cocò… attenta cocò… popò popò… povero me… coon quella liiinguaaaaaaahhhhhhh.
- Fammi il barbarico grido di Whitman! Falllo ora!
- Sss… s-coooopppioooo. Tooolga la b-bbbb… tolga la b-bbbbbb... tolga la booooocaaaaaaaa.
- Libera ora il tuo animo poetico! Grida, fallo adesso Fallo!
- YYYYYYYYYYAAAAAAAAAAAAWWWWWWWWPPPPPPPPPPPPPP!!!!!!!!!!!!!!!!!

Pare che la superstar del momento, ossia la supplente di matematica di Nova Milanese, impartisse lezioni agli studenti con il suddetto metodo educativo. Risulta inoltre che, quando la valorosa insegnante è stata proditoriamente costretta ad abbandonare la scuola dal bigottismo imperante, gli allievi siano balzati in piedi sui banchi e, con i pantaloni abbassati e gli inguini eretti e fieri, abbiano gridato commossi: “Capitana, Mia Capitana!”.

lunedì 13 novembre 2006

Esigo tre-donne-tre in ginocchio da me


Uomini strepitosi. Uomini belli come adoni, intelligenti come un Nobel e simpatici come la copia in negativo di Sgarbi. Uomini dal fascino assassino. Uomini che ti fanno perdere la testa come se avessi ingurgitato una pozione magica di Amelia la Fattucchiera che Ammalia. Da quando sono nel mondo virtuale, non faccio che sentire di sciupafemmine fichissimi che terremotano l’esistenza di sventurate donzelle. Poiché io, per quanto mi guardi intorno, non riesco proprio ad avvistare signore o signorine in preda a deliqui a cagione del mio sguardo tenebroso, è evidente che la presenza di questa schiatta umana mi ha causato non pochi smarrimenti esistenziali.

Ho cominciato a sentir parlare di questi supermaschi baciati da Venere quando praticavo la chat. Ricordo il caso di una professoressa siciliana di scuola media fulminata da uno spasimante risiedente nell’estremo nord del Belpaese (era una regione tipo Friuli o Trentino). L‘insegnante siciliana non faceva che piangere per e-mail a causa di questo tizio e mi toccava pure confortarla per allontanarla da pensieri negativi e forse inquietanti. Pensavo: se questa signora, anche spigliata e briosa, è così cotta di un uomo che vede un paio di volte all’anno (tale era la frequenza dei loro incontri nelle annate buone), è chiaro che costui deve essere un individuo grondante fascino virile a palettate.
Da allora questo scenario è stato una costante dei miei incontri virtuali. Sulla chat ho incontrato decine di prefiche gemebonde devastatate da antichi morosi il cui ricordo le induceva a dar fuori di matto (quando decantavano le gesta di questi individui era sottinteso che io non fossi degno di paragonarmi a cotanto fascino e beltà). Non aveva alcuna importanza che le donne fossero sposate o nubili, docenti o laureande universitarie, belle o brutte, allegre o tristi… tutte senza esclusioni vantavano la conoscenza di questo spasimante che le aveva stregate e spinte a piangere calde stille color Amore Perduto a distanza di mesi e a volte di anni.
Venuto sul blog ho sperato che, magari a causa della diversa natura di questo strumento virtuale, lo scenario suddetto si sarebbe modificato. Macché! Anche qui un mucchio di donne vestite a lutto. Anche qui carrettate di figlie di Eva annientate da amatori dalle qualità inenarrabili. Anche qui io che mi guardavo allo specchio e mi dicevo: perché non riesco a far versare una lacrimuccia pataccara a una donzella nemmeno riversandole flaconi di collirio urticante nelle cornee? Specchio, specchio delle mie brame, mi ripetevo, che cos’ho che non va? E’ forse questo mio profilo da montanaro calato in città? E’ forse questa mia mancanza di sensibilità o poesia? Non sarà mica la mia rozzezza intellettuale? Perché, adorato specchio magico, sono l’unico reietto del blog che non può annoverarsi nella progenie dei seduttori spietati?

C’è comunque una fondamentale differenza tra la chat e il blog. Sul blog, se ti decantano le millanta virtù di amatori epici puoi verificare, almeno in circostanze particolari, se quanto ti raccontano sia vero o verosimile. Talvolta ho potuto farlo. Ecco cosa ho visto, o carissimi e acuti amici del blog.
Il primo caso di seduttore irresistibile riguardava un blogger autore di post scadentissimi e illetterati denotanti una personalità che nessuno classificherebbe nel genere umano pur essendo corrivi in sommo grado. Il blogger in oggetto peggiorava il giudizio suggerito dalla sua prosa confessando una passione incontrollata, degna di un utopista fourieriano, per una squadra di calcio di infima serie. Ovviamente mi dissi che il mio giudizio era inficiato da troppa severità e, forse, dall’invidia causatami dal blogger semianalfabeta.
Allora passai senza por tempo in mezzo al secondo caso e al secondo blog. Qui mi imbattei in un individuo manifestante seri disturbi mentali. Un personaggio che strepitava a tutta forza su qualsiasi tema, che urlava, si disperava, si autofustigava per le molte ingiustizie del mondo riguardanti non solo il genere umano ma pure quello animale, che scriveva una media di due o tre post al giorno, salvo poi piombare in crisi depressive conducenti a prolungate assenze dal mondo virtuale. Su questo secondo blog c’era pure una foto; e che io possa schiattare in questo preciso istante se quell’immagine faceva pensare a un bello e impossibile la cui lontananza può spingerti alla disperazione.
Vabbè, riflettei nel mezzo del cammin di nostro blog, magari era la mia solita invidia che mi portava fuori strada, le cose non potevano essere così negative. Approdo quindi sui blog del terzo e del quarto dei bellimbusti sciupafemmine. Sul primo mi aspetta una quantità impressionante di foto del padrone di casa, in numero perfino superiore a quelle necessarie per sostenere un provino come protagonista del maggior kolossal cinematografico di tutti i tempi. Il soggetto ritratto sulle foto non era poi infame, ma dava piuttosto l’idea di un ballerino del Bolshoi che di un corteggiatore capace di far piangere un’esponente qualsiasi del sesso femminile. Sull’ultimo sito trovo un tizio che scrive poesie e devo trattenermi per non sganasciarmi dalle risate leggendo alcuni dei versi.

Ho riflettuto sulla faccenda a lungo e con tutta la lealtà di cui sono capace. E sono giunto alla seguente conclusione. Non credo di essere certo il maschio più affascinante della terra, ma se quei curiosi individui vagamente umani hanno spinto una donzella a piangere ettolitri di liquidi, io ne dovrei far lacrimare almeno tre. Cioè, se questo mondo non è del tutto impazzito come pure è possibile, in questo preciso momento ci dovrebbero essere come minimo tre fanciulle o signore intente a strapparsi i capelli a causa del mio fascino virile.
Ho deciso di fare una prova. Sincronizziamo gli orologi, cortesi e sagaci amici del blog. Ora sono le 10 e 28 minuti primi del mattino. Se esattamente tra ventiquattro ore non saltano fuori almeno - e sottolineo almeno - tre donzelle affascinanti che, inginocchiate ai miei piedi, mi implorino di restare con loro, io dichiarerò che il mondo è quella gabbia di matti da tutti conosciuta. Avete preso bene l’ora?

Nella foto, il tipico corteggiatore da blog secondo il racconto di molte blogger.

venerdì 10 novembre 2006

Balla con me balla balla


Ecco, mia cara, sei pronta? Prima di tutto dobbiamo scegliere la musica. La musica è importante. Su questo punto comunque non transigo. Ho già pronto il disco con i successi di Sinatra. Sei d’accordo con me? Ma bene. Allora penso che apprezzerai pure il brano che ho scelto per noi. Non può essere che “My way”, è scontato.
Brava, mi piace il tuo vestito. Lungo, elegante. Come è morbido al tatto! Anche quella scollatura ti dona molto. Scusa, ma come facevi a sapere che preferivo vederti in nero? Stai d’incanto, sei molto classica come piace a me. Anche i capelli tenuti su vanno bene. Sei bella, non devo ricordartelo, e che buon profumo hai! Se tiro su con il naso mi sento venire le vertigini, no, non è il profumo, sei tu che mi fai vacillare. Sei tu, mia cara.
Ecco, Frank è partito sullo stereo. Allora, cosa devo fare? Sì, questo me lo ricordo. Ti passo una mano dietro la schiena così, poi ti tengo l’altra mano. Come vado? Lo so, sono un po’ teso, ma chi non lo sarebbe tenendo tra le braccia una donna piacente come te e specchiandosi in quegli occhi chiari come faccio io? Ora cominciamo ad ondeggiare, culliamoci al ritmo della Voce per antonomasia della musica leggera.
Dio mio, come mi piace ballare con te, non riesco a credere che stia accadendo davvero, peccato non poter scattare una fotografia per avere un ricordo di questo momento unico. Aspetta, voglio sentirti più vicina. Ti spiace se ti stringo un pochino di più? Lasciamo che i nostri corpi si si cerchino e si tocchino. Sì, stai davvero bene tra le mie braccia. Questo è ciò che volevo, non ho bisogno d'altro, vorrei che il tempo si fermasse ora. Vorrei solo registrare e fissare per sempre questo ballo straordinario come nell’Invenzione di Morel, ed essere felice per sempre come dovrebbe accadere nel romanzo di Bioy Casares. Cioè, no, mi accorgo che manca ancora qualcosa per rendere perfetto questo momento. Ti spiacerebbe molto abbandonare la testa sulla mia spalla? Sì, così, poggiami una guancia sul petto come stai facendo. Brava, abbandonati a me con quell’aria romantica e fatti cullare dalla musica. Come sei leggera tra le mie braccia! Dai l’impressione che potrei sollevarti come una piuma, e vorrei farlo, lo sai che vorrei farlo.
Ora purtroppo la canzone sta per finire e con essa pure questo ballo. Tra poco arriveranno le fatidiche parole “And did it my way!”. C’è solo il tempo di darti un bacio mentre continuiamo a ballare, C’è solo il tempo di assaporare il miele delle tue labbra, mentre ti stringo e ti sento mia, e di farlo “alla mia maniera” come Sinatra.

Chi ha detto che non so ballare? Chi ha detto che non ballo mai? Tutte calunnie sparse da gente invidiosa che può solo sognare ciò che ho fatto ora. Forza, ragazze, fatevi sotto. Shall we dance? :-)

mercoledì 8 novembre 2006

A me queste tre - La Terra di Mezzo


Tempo fa dedicai un post a tre attrici moderne che per motivi non sempre legati alla recitazione mi avevano stregato. Avevo promesso altri post su nuove triplette femminili riguardanti il cinema di epoca intermedia e classica. Questa è la seconda puntata di quella serie di articoli. Sui criteri con cui ho stabilito le mie preferenze rimando all'articolo segnalato in basso. Ora aggiungerò che mi sono reso conto che queste eroine dello schermo mi hanno fulminato in almeno un film. Cioè c’è stata almeno una storia cinematografica (in genere sono film con qualche implicazione sentimentale palese o occulta) in cui io avrei voluto pazzamente stringere tra le braccia le attrici di cui parlo, in cui avrei voluto involarmi con loro, magari superando pervicaci ostacoli al nostro amore, alla volta di qualche località esotica.

La prima attrice dell’epoca qui presa in esame, a cavallo tra la moderna e la classica, è Sean Young. Mi ha folgorato, e credo non solo me, nella parte della replicante inumana (ma era fin troppo umana) in Blade runner In realtà, rivedendo questa attrice con attenzione in diverse pellicole mi sono reso conto che non è – in rapporto alle sue colleghe – una bellezza epocale. Mi pare fin troppo magra e con poche curve. In qualche caso dà perfino l’impressione di avere le gambe un pochino storte. Tuttavia quei difetti fisici, se davvero esistono nella misura da me rilevata, fanno parte di quelle lievi imperfezioni estetiche che conferiscono carattere e fascino a una persona (è il caso pure della seconda attrice che citerò). Della Young posso dire che raramente un personaggio come quello di Rachel di Blade runner mi ha fatto fantasticare tanto. A quei tempi mi sarei fatto uccidere per avere una storia d’amore con una robot antropomorfa. Mi sembrava che l’amore fosse un sentimento così forte da poter superare perfino la barriera della vita biologica. Tra parentesi, ricordo nitidamente la scena in cui Deckard/Harrison Ford si allontana in macchina con Rachel alla fine del film e ringrazio il produttore del film che ha impedito al regista Ridley Scott di far finire quella storia in maniera più cupa.

La seconda attrice che citerò qui è Madeleine Stowe. Ho già parlato di lei a proposito del post sull’Ultimo dei Mohicani e sui sette e minuti e mezzo in cui ti senti un eroe. Naturalmente mi scioglievo quando la Stowe ti guardava in primo piano con il suo già ricordato lieve strabismo di Venere. Mi faceva ricordare una di quelle eroine salgariane che ti lasciavano stecchito dopo averti fissato, mettiamo, nella giungla bengalese, in qualche isolotto del delta del Brahmaputra, tra baniani giganti e piante esotiche dai nomi impronunciabili. Quando riguardo quel film, provo, chissà perché, sempre il desiderio di caricarmi la Stowe su una canoa urone e condurla in salvo attraverso ruscelli dal corso impetuoso. Mi è piaciuta molto pure nella parte di donna fatale in Sorveglianza speciale in cui manda in tilt il poliziotto Richard Dreyfuss incaricato di sorvegliarla o nell’Esercito delle 12 scimmie. La parte della donna fatale legata a delinquenti le si addiceva, dato che strega pure Costner in Revenge (sarà fatta uccidere dal marito boss mafioso Anthony Quinn).

E’ stato un po’ laborioso scegliere la terza protagonista di questo articolo. Volevo quasi citare Kim Basinger (ma pur essendo uno dei maggiori sexy symbol di tutti i tempi, non era il tipo di attrice che mi faceva sognare… mi è comunque molto piaciuta splendida cinquantenne nel recente Cellular). Dopo un po’ ho scelto un’attrice di certo poco nota ai più, che tra l’altro credo sia la sola ad aver vinto un premio Oscar in questa tripletta, Mary Steenburgen (qualcuno la ricorderà nei panni della maestrina western di cui si innamora Doc in Ritorno al futuro III: accettò la parte obbligata dai figli fan della saga). Mi ipnotizzò nel ruolo della donna moderna (si era nel 1979) nel piccolo gioiello fantascientifico L’uomo venuto dall’impossibile (la Steenburgen interpretava una spigliata impiegata di banca di cui si innamorava lo scrittore H. G. Wells, venuto nel futuro per inseguire Jack lo Squartatore). In quel film Mary sembrava quasi sempre morta o sul punto di morire e Wells doveva usare la macchina del tempo per salvarla. Infine va a vivere in pieno Ottocento con l’uomo dei suoi sogni (evento che mi fa ricordare un’altra storia che sto scrivendo su questo blog). Ultimissima sulla Steenburgen. L’ho sempre considerata una donna non particolarmente bella, perfino rapportandola alle donne comuni; cercando qualche sua foto su internet l’ho trovata davvero in forma in un aderente abito da sera rosso.
E ora rimangono solo le tre dell’epoca classica, speriamo di arrivarci un giorno:-)

lunedì 6 novembre 2006

Il blillante e onolevole agente lettelalio 1


Il teorema di Giorgio Chinaglia

Iniziamo da Giorgio Chinaglia. Un calciatore, uno di quelli che non ti scordi. Un centravanti sfondaporte. Uno che la buttava dentro anche con un gamba ingessata. Bravo e trascinante in campo, non aveva una cultura cattedratica o modi da gentleman. Un giorno al mitico “Processo del lunedì” si trovò a litigare con i giornalisti sportivi non ricordo per quale motivo, ma i motivi non mancavano mai quando si trattava di “Giorgione” Chinaglia. Lo criticavano perché aveva sbagliato un gol o forse solo perché ai giornalisti era antipatico. Dicevano che non era bravo, forse non lo era mai stato. Lui fece un ragionamento che suonava più o meno così. Perché dovete decidere voi se uno è un bravo giocatore o no? Che titoli avete? Che cosa avete dimostrato nella vita, se non il fatto di non saper giocare a pallone e dover essere costretti, una volta aver afferrato questa triste realtà, a fare i giornalisti sportivi? Perché devono guidare e orientare un settore proprio quelli che hanno dimostrato di non avere nessuna qualità in quel particolare campo della vita? Giorgione non si espresse proprio così, ma, in mezzo ai coloriti apprezzamenti verbali e alle minacce di aggressioni fisiche che caratterizzavano il suo eloquio, il suo ragionamento non di discostava poi tanto da questi termini.
Il sanguigno centravanti della Lazio e della Nazionale non era per niente sciocco, anche se molti giornalisti sportivi tendevano a presentarlo come una sorta di Uomo di Neanderthal, se non come un vicolo cieco dell’evoluzione umana. Vediamo se possiamo estrapolare qualcosa dalle sue affermazioni. Dunque è proprio vero che quelli che dimostrano di non avere capacità sono destinati a guidare il settore di loro competenza? E se per un paradosso cosmico ciò fosse vero anche solo in parte, la fondamentale intuizione del re dei bomber non potrebbe adattarsi anche a campi della vita diversi dal pallone? Tanto per citare un settore a caso, non potrebbe riguardare anche l’editoria? L’editoria non potrebbe essere guidata (per lo meno in una parte cospicua) proprio da quelli che hanno dimostrato di non saper scrivere e di non avere qualità intellettuali e morali per capire cosa sia valido e no in campo letterario?

Non lo so, nessuno lo sa. Ma forse una mia esperienza può essere utile per inquadrare meglio il problema. Tuttavia cerchiamo prima di individuare le figure guida in questo campo. Ce ne sono molte. Dal Dio Editore, l’essere Onnipotente che tutto può, ai distributori, ai tipografi, o anche al bizzarro coacervo umano che bazzica le segreterie letterarie, contrassegnato da denominazioni esterofile che appaiono fumo negli occhi allo stato puro, cioè gli editor, i supervisor, magari gli advisor e la vasta genia dei freelance di varia natura. In ogni modo qui avremo tempo solo di parlare di una figura professionale più amichevole, che non ostenta titoli pomposi e incomprensibili, qualcuno che spesso ti dà l’idea di un amico capace e leale, anzi del solo amico che può aiutarti a farti luce nella giungla del mondo editoriale. E chiaro che qui si parla dell’agente letterario.
Tra poco faremo un esperimento. Ci domanderemo: potrebbe applicarsi alla figura professionale testé citata il teorema elaborato dal fine filosofo Giorgio Chinaglia? A prima vista parrebbe di no. L’agente letterario gode fama di persona preparata e seria. Lo si immagina come un individuo abbigliato con eleganti completi di grisaglia dai toni autunnali o con tailleur blu manager che ti danno l’idea di efficienza e competenza. Lo si percepisce come un individuo colto che ha letto l’opera omnia di Karl Popper e che a scuola era costantemente tra i ragazzi più svegli della classe. E’ proprio così? Vediamo cosa ci dice la nostra esperienza.

Continua nella seconda puntata...

sabato 4 novembre 2006

Eroe per sette minuti e mezzo


Diciamo che parte una colonna sonora, una musica che ti fa ribollire il sangue e ti rende desideroso di affrontare stuoli di nemici per difendere la donna del tuo cuore. Diciamo che la musica appena partita è uno dei più trascinanti motivi mai succedutisi sullo schermo, una specie di ballata di sapore irlandese, ottenuta con violini e percussioni degne di una danza della pioggia Sioux. Diciamo che ti trovi in un accampamento urone e che gli indiani lì riuniti vogliono bruciare viva la donna che ami, ossia Cora, ossia la splendida Madeleine Stowe al suo meglio. Diciamo che con un sotterfugio riesci a far scampare questa leggiadra creatura alla morte, ma che qualcun altro deve morire al suo posto, un maggiore inglese distintosi, prima di questo gesto impavido, solo per grettezza intellettuale e conformismo sciovinistico.
Ora però abbiamo un problema grosso come una casa. La musica trascinante continua a echeggiare, i violini della colonna sonora ti parlano, ti blandiscono, ti esaltano. Non si può rimanere con le mani in mano mentre si ascolta una simile musica, devi fare qualcosa di eroico. Però sei fortunato. Magua, il vendicativo e sanguinario indiano autore di imprese scellerate, si è da poco allontanato dal villaggio urone con Alice, la sorella della tua amata. Non c’è nemmeno da pensare cosa fare, con una musica così. Prima di tutto spari al coraggioso maggiore inglese offertosi come vittima sacrificale, per risparmiargli l’agonia al palo della tortura. Quindi inizia la tua corsa, che ti fa arrampicare per sentieri scoscesi in mezzo a boschi cupi e purissimi. Accanto a te Cora, davanti tuo fratello acquisito Uncas e tuo padre adottivo Chingachgook

Certo, devi fare l’eroe, però seguendo la musica. La musica in questa storia è tutto, specie in questi straordinari sette minuti e mezzo. La colonna sonora ordina e tu obbedisci. Violini e percussioni ti dicono cosa fare e tu lo fai. Dopo due minuti la musica cambia, tornando al tema principale del film, meno tambureggiante, più epico. Hai il tempo di guardarti intorno per ammirare la bellezza dei paesaggi. Guardi le valli e i dirupi, l’acqua tersa di un ruscello e le scarpate che ti tolgono il fiato, il verde unico degli alberi e il cielo del Grande Nord. Tuttavia ecco il rientro in grande stile della ballata pseudoirlandese: bisogna riprendere l’inseguimento del gruppo urone. Uncas uccide alcuni indiani e affronta il vendicativo capo urone (Magua vuole uccidere Alice e Cora per vendicarsi del loro padre, il colonnello inglese Munro). Magua comunque è un brutto cliente. Anche la colonna sonora sembra capirlo, poiché si fa funerea, rallenta per tutto il tempo necessario a Magua per uccidere Uncas e ad Alice per gettarsi disperata da un dirupo. Ancora qualche secondo di ritmi bassi per valorizzare la natura grandiosa in cui si svolge questa scena e per percepire il muto dolore di Chingachgook e Cora. Poi ecco i violini riprendere a martellare. Sono passati ben sei minuti, dall’inizio della musica che guida i tuoi slanci ardimentosi. Ne resta solo uno e mezzo per compiere l’atto eroico reclamato dalla situazione. Novanta secondi sono pochi, ma possono bastare per farti correre, con ampie falcate e totale sprezzo del pericolo, imbracciando due fucili i cui colpi freddano altrettanti uroni. Con un fucile sottratto a un indiano, tieni sotto mira i rimanenti accoliti di Magua, mentre Chingachgook affronta l’assassino del figlio nel duello finale e lo uccide. E’ finita. Magua ha esalato l’ultimo respiro in primo piano. La musica trascinante si è spenta.
Però c’è una coda, per te spettatore ed eroe per oltre sette minuti. Ancora per qualche secondo percepisci al tuo fianco una donna affascinante come Cora. Ancora per qualche secondo sei parte dei più splendidi paesaggi creati su questa terra. Ancora per qualche secondo sei felice.

Oggi pomeriggio mi preparavo il caffè quando il televisore ha intonato una melodia che non manca di farmi vibrare l’anima. Per l’ennesima volta ho ripreso il dvd dell’Ultimo dei Mohicani e mi sono rivisto i famigerati sette minuti e mezzo che mi fanno battere il cuore.

venerdì 3 novembre 2006

Canzoni e amori clandestini


Alcune canzoni hanno per me un valore aggiunto, oggi. Perché oltre ad essermi care per averle ascoltate in particolari momenti della mia vita, ora mi sento libero, senza provare disagi, di cantarle e di dire di averle amate.
In genere queste canzoni da me amate e cantate di nascosto sono motivi romantici risalenti all’epoca liceale. In quegli anni erano diffuse mode giovanili tese a un presunto impegno politico (mode siffatte ci sono sempre, solo che in quella circostanza erano più intense del solito). Tutti i ragazzi o quasi si sentivano – nella totalità dei casi a torto – valorosi rivoluzionari senza macchia e senza paura, piccoli Che Guevara che avrebbero terremotato la società, ristrutturandola secondo i loro superiori principi morali.
La conseguenza di questo stato d’animo diffuso era che ogni ardimentoso giovanotto, specie in ambito studentesco, affettava un impegno musicale, aborrendo la canzone tradizionale. Sulle preferenze musicali, si faceva a gara a chi la sparava più grossa, con gruppi rockeggianti chiassosi, cacofonici, anticonformisti o presunti tali. Un mio amico dell’epoca affermava di ascoltare solo musica di avanguardia (una volta mi fece ascoltare una delle schifezze che sentiva e la trovai la più grande boiata mai prodotta utilizzando le sette note). Questo mio compagno di scuola, e tanti altri come lui, consideravano fascisti reazionari o, nella migliore delle ipotesi, ritardati mentali da compatire tutti coloro che ascoltassero qualcosa di ballabile o orecchiabile. Il momento storico era tale che quasi nessuno metteva in dubbio la superiorità morale e intellettuale di questi gran cazzoni (mi spiace, ma non c’è un altro modo parimenti efficace per definire questo tipo umano).

Io ero solo un ragazzino. E come tale percepivo il pensiero dominante intorno a me e cercavo di adeguarmici per ottenere consenso sociale e sembrare interessante. Dato che la moda era di vantare una condotta rivoluzionaria e l’ascolto di cagnare musicali eseguite da personaggi pseudo-eversivi, anch’io dichiaravo di ascoltare quella robaccia e in qualche caso lo facevo pure.
Tuttavia nell’aria giravano la disco-music e tante belle melodie romantiche. E nella mia scuola c’erano tante magnifiche ragazze di cui innamorarti. E infatti io mi innamorai – perdutamente, come in una canzone di Little Tony di epoca precedente - di almeno una di esse, le ho dedicato pure un paio di post. In quei giorni feci una scoperta. Quando fantasticavo di me e di questa ragazza, mi piaceva ascoltare la musica romantica aborrita dall’ambiente di cui aspiravo a fare parte. Soprattutto ricordo che mi emozionava ascoltare “Margherita” di Riccardo Cocciante che proprio in quei giorni vendeva alla grande.
Quella volta imparai tutta la canzone da cima a fondo cantandola tra me e me mentre coltivavo tenere fantasie. La cantai così tante volte che ancor oggi la conosco dalla prima all’ultima parola (cioè dall’“io non posso stare fermo” a “Margherita adesso è mia”).
Ovviamene all’epoca ero innamorato, ma non stupido. Sapevo benissimo che andare in giro cantando “Margherita”, o dicendo di ascoltarla con piacere, sarebbe equivalso a un suicidio sociale. Un simile evento mi avrebbe condannato a ricevere sorrisetti di compassione o a farmi catalogare tra i detestati Figli della Reazione. Di conseguenza ascoltavo la per me toccante “Margherita” solo a casa mia e me la ripetevo per impararla a memoria. Mi comportavo più o meno come certi oppositori politici nei regimi totalitari, quando si riunivano in clandestinità per parlare di libertà.
Il fatto di non aver potuto cantare “Margherita” all’epoca oggi mi rende cara come poche cose questa canzone (e altre simili).

mercoledì 1 novembre 2006

Il punto in cui cantare è un obbligo


Oggi ho sentito delle canzoni. Erano vecchie, degli anni Settanta o Ottanta per lo più. Ne volevo sentire solo un paio, poi invece mi sono lasciato trascinare. Non avevo alcuna intenzione di cantarle, ma a un tratto mi sono reso conto che ascoltando canzoni che esercitano una particolare suggestione su me mi è del tutto impossibile, in particolari passaggi, impedire alla mia gola di sfogarsi e al mio canto libero di librarsi non al di là del limite degli occhi tuoi, ma nel cielo nella mia stanza (tra gli alberi infiniti che fanno da pareti, si sa). Ho cantato, spinto da una forza misteriosa, irrefrenabile, allocata in un punto profondo a me stesso ignoto, una forza che assume il pieno controllo del mio essere quando ascolto certi motivi musicali e sono in un particolare stato d’animo.

Il punto che mi preme sottolineare è che ci sono dei passaggi precisi, dei brani obbligati, in cui non posso evitare di cantare a gola spiegata, specie se non c’è nessuno con me, ma spesso pure quando sono in compagnia. Dopo aver fatto allenamento con la cyclette, peraltro, sono così euforico che gorgheggio senza freni, meritandomi senza dubbio le maledizioni dei miei vicini di casa. Naturalmente le canzoni che citerò di seguito sono solo a titolo di esempio. Ecco i punti in cui non posso evitare di trasformarmi in un piccolo Sinatra (spero non troppo stonato). In "Margherita" di Cocciante (la cantavo al liceo quando ero innamorato o credevo di esserlo) quando ci sono i versi "E poi, coi secchi di vernice / coloriamo tutti i muri / case, vicoli e palazzi"... specie quando vengono le "case, vicoli e palazzi". In “Pescatore” di Pierangelo Bertoli quando si dice “Rosa rossa pegno d’amore / Rosa rossa malaspina”: è la parte cantata da Fiorella Mannoia. In “Guido piano” di Fabio Concato, “Ma c’è tanto sole / e mi accorgo che ne ho bisogno come un fiore” (non ricordo mai le parole di questa canzone quando sono ad esempio in strada, ma ascoltandola mi tornano in mente diversi passaggi). In “Tu… e così sia” di Franco Simone, “Veramente, ti ringrazio di esistere”… ma anche “E ti amo, ti amo, ti amo, ti amo”. Di "Cento campane" di Lando Fiorini, sigla del magnifico sceneggiato televisivo “Il segno del comando”, "Me resta 'na speranza / na speranza de quer sììì". “Cantautore” di Edoardo Bennato: “Non li senti trattenere il respiro / quando sei in alto e cammini sul filo”. Dei “Treni di Tozeur” di Franco Battiato, “E per un istante ritorna la voglia di vivere / a un’altra velocità”. In “Ci vuole orecchio” di Jannacci, “Bisogna avere orecchio / bisogna avere il pacco / immerso, immerso dentro al secchio”.

Ultima di questo post. Quando sono soggetto a questa frenesia canterina, non faccio riflessioni di opportunità, canto a squarciagola fregandomene di tutto e tutti. E’ senz’altro questa assenza di riflessione che mi spinge a farmi tutti i “Tiamoti-aaamo-tiamoti-aaamo / tiamotiamotiamotiamotiamo-ti-a-aaamo” della canzone di Umberto Tozzi dal noto titolo (me ne deve essere sicuramente sfuggito qualcuno). :-)

Cos’è che ci spinge a cantare in un certo punto?