martedì 26 giugno 2007

Chi ha visto il libero arbitrio?


La maggior parte delle persone pensa di poter operare delle scelte, di essere libera di poter fare una cosa o un’altra. Di poter scegliere una ragazza o un’altra, una carriera universitaria o un’altra, di fare un lavoro o di aver comprato una certa macchina e proprio quella di propria iniziativa. La maggior parte delle persone pensa o forse si illude di beneficiare di quella cosa fumosa, ma affascinante denominata libero arbitrio. Insomma, dice certa gente, proprio oggi c’è stato un certo bellimbusto da spiaggia che ha cercato di rimorchiarmi e io gli detto di togliersi dai piedi mentre avrei potuto pure incoraggiarlo… Giusto ieri ho avuto due offerte di lavoro e ho deciso di accettare quella mi faceva guadagnare meno, ma che mi consentiva di restare più vicino alla mia famiglia. Non sono forse queste prove incontestabili della mia libertà di pensiero, della mia capacità di scelta, del mio libero arbitrio?

In realtà si potrebbe obiettare che tutte le scelte descritte qui sopra e molte altre ancora sono obbligate e che la sensazione che spesso abbiamo di essere originali e indipendenti nella nostra condotta è, appunto, solo una sensazione. Il comportamento umano è influenzato e determinato da svariati fattori estremamente complicati. Le condizioni ambientali, quelle familiari, le esperienze fatte, l’umore del momento, le ambizioni e le aspirazioni coltivate, la propria provenienza sociale o economica, il proprio background cerebrale. Insomma c’è un intero e complicatissimo ecosistema ambientale e mentale che viene stimolato quando c’è da fare una scelta o da adottare un comportamento. Ci sono innumerevoli parametri che entrano in ballo, interagiscono, si influenzano a vicenda. Però alla fine si crea un equilibrio, Il solo equilibrio che poteva crearsi in quella determinata situazione. L’equilibrio creatosi genera un comportamento. E quel comportamento sembra una scelta, quando è solo il naturale e ineluttabile sbocco che poteva e doveva avere quella situazione. Possiamo persino affermare che facciamo una determinata cosa, prendiamo una precisa decisione perché esse sono la sola cosa e sola decisione per noi possibili in un certo contesto. Non esistono altre scelte, esiste solo quella! Non ci sono altre opportunità, c’è solo quella che abbiamo seguito.

E’ come per le condizioni meteorologiche. Ci sono certi equilibri tra calore, umidità, masse d’aria in movimento, molecole più o meno eccitate che si muovono a diverse velocità. Non è affatto strano che, se una farfalla batte le ali a Pechino, a New York piova come si diceva in Jurassic Park per giustificare la teoria del Caos. In realtà in quel contesto la pioggia a New York è obbligatoria e scontata. Anzi è il solo sbocco che possono avere certi delicati equilibri climatici dopo aver trovato il loro assestamento.
Un semplice esempio potrebbe farci visualizzare meglio questa situazione. A molti è noto il gioco cinese detto Shangai, cioè quello con i bastoncini colorati lasciati cadere a ventaglio da una posizione verticale. I giocatori devono recuperare i bastoncini a uno a uno cercando di non muovere gli altri. E’ noto che i bastoncini non si disporranno mai in due maniere uguali. Ogni volta che apriamo la mano per liberarli sembreranno animati da una volontà propria e se ne andranno ciascuno per conto suo. La loro disposizione sembra regolata dal caso. Ogni volta pare quasi che i bastoncini dello Shangai possano scegliere posizioni diverse da quelle che poi andranno a ricoprire. Eppure non è così. I bastoncini colorati sono obbligati a disporsi ogni volta in un solo modo e solo in quello. Sono costretti a seguire la forza e la direzione impressagli delle dita, la presenza o meno di vento, le scabrosità della superficie su cui cadono, le spinte e controspinte che ciascun elemento del gioco opera sugli altri… e così via. C’è una molteplicità di forze che opera su piani separati. C’è un delicato equilibrio che si crea. E c’è una disposizione obbligata dei bastoncini.
Allora a che cosa è dovuta la nostra percezione di esseri liberi e di fare ciò che ci pare e piace e non ciò che ci impongono determinati equilibri non influenzabili dalla nostra volontà (ammesso che essa esista nella misura normalmente avvertita)? Probabilmente è data dalla facilità con cui situazioni all’apparenza simili possono portare a nostri comportamenti all’apparenza differenti o persino opposti. Ma è come nel gioco dello Shangai. Noi non siamo liberi di fare ciò che vogliamo, così come non sono liberi i bastoncini colorati di disporsi in un certo modo.

Ultima di questo post. Se ogni scelta e comportamento sono obbligati come qui si sostiene (anche provocatoriamente), ciò significa pure che, disponendo di un’appropriata capacità di calcolo, essi si possono prevedere in anticipo. Questa riflessione ne suggerisce un’altra più drastica. E cioè che disponendo di un’adeguata massa di dati e di un’infinita capacità di calcolo si sarebbe potuto prevedere perfino l’intero corso dell’universo (il destino di ogni singola stella o pianeta, di ogni molecola o essere vivente, di ogni amore umano o extraterrestre)… fin dai primi attimi del Big Bang. Forse è quello che ha fatto Dio, che se esiste può di certo contare su una immensa capacità di elaborazione matematica. Forse Dio ha previsto fin dall’inizio dell’universo ogni minimo aspetto, ogni irrilevante dettaglio dello sviluppo futuro del cosmo. Non è una cosa impossibile, a pensarci bene. Solo immensamente complicata.

lunedì 25 giugno 2007

Le ragazze napoletane cantano nei vicoli

La vita è lunga. E’ abbastanza lunga da farti cambiare idea su molte cose, quasi su tutto. Ho già scritto un post in cui parlavo di come da ragazzo detestassi quasi ogni aspetto della napoletanità, soprattutto nella musica, anche nella musica partenopea colta. Non mi piacevano il facile folclore del paese d’’o sole, la macchietta, la sceneggiata e nemmeno Totò o i De Filippo (sopportavo solo un po’ Eduardo). Ho già scritto almeno due post su questi aspetti e li ho linkati di sotto per chi volesse approfondire. Da alcuni anni ho cambiato idea su molte cose, da Totò a Roberto Murolo. Resisteva solo una certa avversione verso la canzone popolare moderna della mia città, quella dei cosiddetti neoromantici, cioè del giro musicale da cui sono usciti Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio. Per cause fortuite mi è capitato di ascoltare diversi pezzi di questa corrente musicale. Non dirò che sono capolavori, anche se talvolta sono ben fatti. Sono pezzi facili, orecchiabili, allegri, che ti mettono di buonumore e ti rilassano. Insomma spesso funzionano meglio di un buon caffè per farti cominciare bene la giornata. A differenza del passato, quando per strada vedo ragazzine napoletane che in gruppi di tre o quattro cantano brani popolari, non rido con superiorità, ma rido e basta. Sono contento. E mi accorgo certe volte di conoscere le parole che ascolto. Ah, devo averlo già detto da qualche parte, ma le ragazze napoletane sono belle, specie quando cantano canzoni popolari passeggiando nei vicoli. Sono una forza quando lo fanno.
Link.
La canzone napoletana: La canzone napoletana, Sei bella Napoli quando canti
Lingua napoletana:
Italiano contro napoletano, Salvate il napoletano che muore
Ecco i titoli dei video musicali. “Sto venenne addu te” (sto venendo da te) di Tommy Riccio e Ida Rendano, “Chille va pazze pe’ tte” (Quello va pazzo per te) di Ciro Ricci, infine “Ragione e sentimento” di Maria Nazionale.







venerdì 22 giugno 2007

Ho sposato Peggy Sue


Mi sono affacciato al balcone al crepuscolo. Ero sul meditativo-malinconico e riflettevo su alcune domande esistenziali. Le solite cose, chi sono, cosa rappresento e dove vado. Mi pareva strano che il mondo fosse lì, fuori dal mio balcone. Che io fossi lì. Mi pareva strano che sia il mondo che io fossimo lì. Facevo il nostalgico e, tanto per restare in argomento con i notiziari di oggi, pensavo all’epoca in cui feci l’esame di maturità. Perché esiste la nostalgia? Perché i tempi passati ci sembrano sempre migliori? Perché a un certo punto ci sembra di essere i padroni del mondo e perché poi quella sensazione svanisce? Per restare in tema con l’esame di maturità che campeggia nei notiziari, ecco il commento (un po’ rimpinguato) che ho lasciato da amfortas su quel periodo.

All'esame di maturità non studiai. Non era una novità perché non avevo studiato nemmeno durante l'anno. Ricordo di quel periodo che mi facevo magnifiche partite di pallacanestro (non sono poi così alto, ma ero un play maker mica male, a livello di post-oratorio, palleggiavo bene con entrambe le mani e avevo un tiro fulminante specie dall'angolo). Stavo quasi tutto il giorno sul campo di basket. Si giocava a un solo canestro tre contro tre. Si giocava a un ritmo infernale, quasi senza pausa. In vita mia non sono mai stato così allenato ed abbronzato (ci si toglieva la maglietta per saltare e tirare e ti sentivi da Dio quando le ragazze passavano di lì e ti guardavano). Era un campo privato, ma si scavalcava la rete e solo qualche volta ci venivano a rompere le scatole. Quando eravamo solo in due o in tre, si provavano i tiri, i terzi tempi, i ganci, il palleggio. Ero orgoglioso di riuscire a farmi passare la palla tra le gambe mentre palleggiavo, azione che non serviva a nulla, ma faceva tanto fico. Cercavo di non pensare all’esame perché mi preoccupava. Dicevo: inizio a studiare domani, ma poi non cominciavo mai. Mi sarei divertito molto di più giocando a basket in quel periodo se non avessi avuto quel chiodo rovente dell’esame piantato nel cervello. Dio mio, come tiravo bene dall’angolo. Ci arrivavo in palleggio, arresto e tiro: canestro. E’ triste pensare che sono attimi persi per sempre. Cose che non torneranno. Mai più l’arresto e il tiro dall’angolo.
Studiai due settimane come un pazzo e alla fine sapevo quanto sapevano gli altri, cioè niente. Il momento più bello di quel periodo, uno dei più belli della mia intera vita, era quando alle sette mettevo via i libri e mangiavo guardando le repliche di Zorro (la vecchia serie interpretata da Guy Williams). Dio, che serenità, che pace, in quei momenti! Diego De la Vega e il sergente Garcia. E’ una sensazione che non si può spiegare.
Ci sono dei passaggi traumatici nella vita di ciascuno. Credo che uno dei passaggi traumatici della mia sia stato quando è finito il liceo. La vita non è mai stata più la stessa dopo quello spartiacque.

Se potessi tornare indietro, come nel suggestivo film Peggy Sue si è sposata (io però non mi sono sposato) mi siederei nel mio banco al liceo. Farei un mucchio di cose che non ho fatto. Studierei. Tutte le materie. Latino e matematica. Riderei di più. Sarei più sicuro e positivo. E a una certa ragazza con gli occhiali direi cose che non le ho mai detto. Più o meno farei quello che fece Peggy Sue/Kathleen Turner nel film di Francis Ford Coppola.

lunedì 18 giugno 2007

L'anticonformista conformista


Non siamo a un matrimonio, ma forse possiamo usare la formula più famosa del celebrante (magari modificandola un po’): ¨Se qualcuno ha mai visto o conosciuto un individuo realmente anticonformista, parli ora o taccia per sempre”.
Mi capita spesso di leggere, non solo sul blog, articoli di gente che si proclama anticonformista o che strombazza tra le righe il suo essere progressista e innovatore contro il pensiero dominante. Vedremo tra poco se questa idea è effettivamente fondata e se i supposti anticonformisti sono davvero tali. Per ora spendiamo due parole per inquadrare meglio il problema. Dunque il termine conformismo indica chi si uniforma passivamente alle opinioni e alla mentalità dominanti di un determinato gruppo sociale. Chi si pone al di fuori di tale contesto sarebbe al contrario un anticonformista.

La prima riflessione dice che pure le pietre di questo pianeta pensano o affermano bellamente di essere individui fuori dal coro. Basta che uno svegliandosi la mattina scenda dalla parte del letto che non usa di solito e costui è convinto più o meno di essere un Giordano Bruno erettosi contro il perbenismo del Politicamente Corretto. E magari si aspetta pure di ricevere una medaglia per la sua originalità di pensiero e per il suo ardimento esistenziale. Se poi uno parla contro Bush (azione lecita e anche condivisibile, ma non certo minoritaria nel mondo), guarda i film di qualche lagnoso regista danese o spagnolo superosannato dalla critica, o mangia questa stronzata del sushi al posto degli stortignaccoli alla puttanesca… be’, allora chi ci salverà mai dagli epici autoincensamenti sull’audacia intellettuale di questa gente?

Mi sono chiesto, ma è davvero possibile che una persona vada sul serio contro il pensiero e la mentalità dominanti, che accetti lucidamente di isolarsi dagli altri, di affrontare la disistima e l’avversione del suo gruppo esistenziale di riferimento? La mia risposta è stata che no, ciò non è possibile. Uno dei principali bisogni dell’uomo, se non il primo in assoluto, è quello di cercare e raggiungere il consenso dei simili. Il consenso è una forma di potere, anzi la sola vera forma di potere, raggiungibile con varie strategie, dal denaro alla militanza partitica o religiosa. Il potere ti mette in condizione di appagare meglio gli scopi vitali di te essere vivente (che sono quelli legati alla riproduzione). Se l’essere umano quindi vuole e cerca il consenso, come può adottare idee e stili di vita che gli procurino il discredito presso i simili? La risposta è che il supposto anticonformista cerca di ottenere, con la sua azione eccentrica (quando è davvero tale), l’approvazione di un gruppo di persone a lui care, che è quello in cui si verificano e si valutano i suoi successi e i suoi insuccessi, in cui in definitiva si svolge la sua vita. Costui potrebbe essere l’attivista di un partito politico minoritario, il tifoso di una squadra di calcio, il credente di una fede religiosa poco diffusa (magari uno dei Testimoni di Geova citati nel post precedente), un liberalizzatore di droghe pesanti o un indefesso fautore dell’ecologismo militante (ma ormai pure i contrabbandieri di bombe atomiche ex sovietiche piangono lacrimoni per la deforestazione amazzonica o per i fluorocarburi che fanno la bua al buco nell’ozono). In una parola tutti i supposti anticonformisti non sono altro che conformisti esponenti del loro gruppo sociale di riferimento. Si adeguano anch’essi al pensiero dominante. Cercano il consenso altrui. Solo che consenso e vantaggi a cui ambiscono sono da ricercarsi verso un circoscritto gruppo sociale.

Diverso è il caso di quelle persone che, consapevoli delle conseguenze, hanno il coraggio o la sconsideratezza di dire e sostenere idee che li lasciano davvero da soli. Idee che fanno peggiorare la loro qualità di vita e gli portano l’ostilità della maggioranza sociale non controbilanciata dal favore di altre categorie umane o da vantaggi di altra natura. Il vero anticonformismo è una pratica scomoda, spiacevole e spesso anche fisicamente pericolosa. Non ti fa diventare eroe. Non ti porta in televisione. Non fa stampare migliaia di t-shirt e bandiere con la tua immagine. Non fa acclamare il tuo nome nei cortei di piazza. No, situarti davvero fuori dal coro ti fa vivere male o peggio di come vivevi prima, ti fa camminare solo. Chi è davvero disposto ad affrontare questo destino?

giovedì 14 giugno 2007

Specchio, specchio, chi non è sexy in questo reame?


Come alcuni sapranno spesso faccio passeggiate serali e non di rado in queste passeggiate mi capita di assistere a fenomeni bizzarri. Uno di questi fenomeni si verifica in prossimità di una sede dei Testimoni di Geova. Uno si domanderà, ma come si vestono i Testimoni di Geova? La risposta scontata - considerando la sobrietà dei costumi e il fondamentalismo religioso di solito attribuiti a questo tipo umano - è che dovrebbero abbigliarsi con morigeratezza, quasi in modo francescano. Be’, questa idea non corrisponde alle mie osservazioni.
In genere da quella sede religiosa vedo venir fuori persone vestite sempre sul classico, ma quasi mai in maniera castigata. Sia gli uomini che le donne per lo più sembrano usciti da un vecchio film con Humphrey Bogart. Gli uomini indossano pantaloni anni Cinquanta, giacca e cravatta e, quando è la stagione giusta, cappotti tipo detective Marlowe o Sam Spade. Guardandoli uno si chiede sempre dove siano finiti i cappelli da gangster che dovrebbero completare il loro look. Le Testimone di Geova sono una sorpresa ancora maggiore, dato che hanno uno stile che vorrebbe imitare quello di Veronica Lake o di Rita Hayworth. Non molto tempo fa vidi una di queste signore abbigliata con scarpe alte di vernice e un lungo abito retrò che sarebbe stato stonato in qualsiasi posto, ma soprattutto nel mio partenopeo quartiere di periferia in pieno pomeriggio. Ricordo che la signora Testimone di Geova esibiva una pettinatura elaborata, antiquata, provvista di onde capellifere.

Tra l’altro proprio ieri sono passato davanti alla sede dei Testimoni di Geova vicino casa mia. Una cinquantina di metri oltre, ho visto uscire da una macchina una signora e una ragazza che sembrava la figlia. Qualcosa nel loro atteggiamento e vestiario mi ha fatto classificarle come aderenti a una certa idea religiosa. Tuttavia la ragazza camminava su un paio di trampoli alti almeno un chilometro. Una cosa spaventosa. Anche le ballerine del Crazy Horse avrebbero avuto difficoltà a procedere su quei tacchi formato grattacielo. Mi sono interrogato in fretta sulle abitudini vestimentarie dei Testimoni di Geova e, anche adottando le teorie più liberali, non riuscivo proprio a farle coesistere con quelle calzature a palafitta (e con ciò che le sovrastava).
Ero divorato dalla curiosità di sapere se avevo avvistato ignare passanti miscredenti o vere adepte della Parola del Creatore. Mi sono fermato ai bordi della strada, spiando di sottecchi la madre e soprattutto la figlia. Soprattutto quella leggiadra regione corporea della figliola che si dipartiva dal polpaccio turgido, digradava nella caviglia e quindi, superando il tallone esplodeva in affilati e sinuosi tacchi overcento. Mi trovavo in una specie di deserto metropolitano dove nessuno avrebbe avuto ragione di fermarsi, niente fermate d’autobus, né portoni sotto i quali fingere di aspettare qualcuno. Anche se cercavo di dissimularlo, era evidente che guatavo le movenze della gazzella sui trampoli e si poteva giurare che nessuno degli automobilisti o dei viandanti si beveva la mimica meditativo-intellettuale che cercavo di imprimere sul mio viso. Ricorrendo a bassi espedienti, mi sono allacciato le scarpe, ho contato le monete che avevo in tasca, raccolto e consultato un volantino di supermercato con offerte vecchie di due mesi. Infine ecco il momento atteso. La madre e la procacissima figlia soprelevata sono arrivare davanti al punto prestabilito. Una leggera esitazione e quindi matrona e ninfa sono sparite nella sede dei Testimoni di Geova. Ho considerato di passaggio l’ipotesi di convertirmi a una nuova religione e quindi mi sono incamminato verso casa mormorando qualcosa di non particolarmente brillante che poteva essere un Mazzachetempi o un Noncepiùreligione.

lunedì 11 giugno 2007

L'amore abita negli occhi - quarta e ultima puntata


Quarta puntata

Impossibile, impossibile!” esclamò spaventata Emma osservando lo sconosciuto in cilindro e redingote che l’aveva appena salvata dall’arresto. Aveva le gambe di gelatina e sentì peggiorare i problemi di respirazione causatile dal corpetto assassino. Una delle tante carrozze che sfrecciavano ai lati della strada spruzzò schizzi di fango che lambirono la balza di taffettà della sua monumentale crinolina. No, non le sembrava impossibile lo sferragliare di carri e carriaggi in una strada che avrebbe dovuto ospitare rombanti automobili e autobus incatenati nel traffico. Non trovava assurdi i richiami di antichi caldarrostai o acquaioli che sostituivano le suonerie pacchiane dei cellulari o gli echi dell’ultimo successo di Shakira. No, ciò che ora trovava impossibile non era dovuto all’impazzimento del mondo, ma a qualcosa che vedeva sul viso e negli occhi del suo salvatore.
Si voltò intorno. I passanti in tenuta ottocentesca non le badavano, sembravano considerarla un elemento del loro mondo, una Jane Eyre o una Signora delle Camelie meno appariscente. Gli unici che all’apparenza nutrivano dubbi verso lei erano i due gendarmi che avevano tentato di arrestarla, i quali la sbirciavano da un angolo di via come in attesa di ripetere l’operazione sventata dal signore in cilindro. Solo in quell’istante rifletté che lei in quel mondo alieno non avrebbe saputo procurarsi nemmeno un tozzo di pane, azione probabilmente per nulla facile da attuare in mancanza di assistenza sociale e con lo spettro della carestia sempre in agguato. “Scusatemi signora”, disse l’uomo in cilindro, “forse mi prenderete per un maleducato o peggio, ma non riesco a smettere di guardarvi. E’ forse questo che vi imbarazza?”
“No, è che mi sono ricordata dove vi ho già visto. Io credo di conoscervi. Forse vi ho incontrato in… ehm, un altro mondo.
“Volete dire all’estero? L’altro anno ho visitato il Granducato di Toscana e...”
“No, io parlo di un mondo molto più lontano.”

D’un tratto Emma non si vide più in quella pittoresca strada dei tempi andati, ma nella seconda C della scuola media Francesco Solimene dove insegnava, due secoli nel futuro, italiano e latino. Chiuse gli occhi per un attimo. Ecco i suoi studenti di quella scuola napoletana di periferia seduti nei banchi, mentre lei è assisa in cattedra con il registro di classe in mano. I suoi studenti sono nervosi, guardano altrove come per sfuggire all’interrogazione con quell’espediente. Emma è dispiaciuta. Non vorrebbe essere percepita così severa, vorrebbe essere per i suoi alunni un’amica come lo è Elsa, la mielosa e scosciata professoressa di inglese. Ma anche se ha tentato varie volte di addolcire la sua immagine, i suoi studenti la temono sempre e comunque. Però in quella seconda C non tutti evitano di guardarla. C’è quel ragazzino con i capelli rossiccio castano seduto al secondo banco. Strizza gli occhi da miope, però non porta le lenti perché si vergogna. Anche lui non vorrebbe essere interrogato, anche se a scuola va bene, ma continua a fissarla. Solo ora Emma si accorge che quel suo allievo non la guarda come un allievo fa con un’insegnante.
“Perché sorridete?” le chiese preoccupato il signore in cilindro quando lei riaprì gli occhi.
“Scusate, è che voi somigliate a un mio allievo. In effetti sembrate la sua perfetta copia da adulto. Avete un neo nello stesso punto della faccia e addirittura lo stesso vezzo di massaggiarvi l’angolo dell’occhio con unpolpastrello.”
“Che cosa curiosa. Come si chiama, questo vostro allievo?”
“Francesco.”
“Davvero strano! Anch’io mi chiamo così. Quanti anni ha il vostro giovane amico?”
“Solo dodici.”
“Sono abbastanza per avere sogni e qualche volta pure per realizzarli”.

Emma avrebbe voluto chiedere al suo interlocutore spiegazioni su quelle parole, ma proprio in quel mentre fu urtata da un passante con uno strano copricapo a tricorno che quasi la mandò a gambe all’aria. “Quanto credi che costi realizzare un sogno, Emma?” le sussurrò in un orecchio l’irruente viandante mentre la aiutava a mantenere l’equilibrio. Il passante con il tricorno era il barbone che dormiva ubriaco nel vicolo del ventunesimo secolo lasciato mezz’ora prima. Lo stesso personaggio che le aveva chiesto di fare una scelta irrinunciabile davanti alla porta temporale.
L’istante dopo l’ex barbone e il suo bizzarro tricorno si erano dissolti nella folla dei passanti che sciamava su quel tratto di strada. Prima di sparire però il suo interlocutore le aveva messo qualcosa in mano. Era una moneta bicolore da un euro, la stessa moneta che lei aveva regalato al presunto barbone in un vicolo più vecchio di due secoli. Il gentiluomo che l’aveva salvata dall’arresto somigliava più che mai al suo allievo di un altro mondo e la guardava con la stessa intensità. Lei sorrise e lui le sorrise. Lei lo guardò e lui non smise di guardarla. “Scusatemi, Francesco, posso farvi una domanda sciocca? Quanto credete che costi realizzare un sogno?” Lanciò la moneta da un euro a mendicante che tendeva una mano verso i passanti. Il mendicante osservò perplesso la moneta per qualche secondo e infine la buttò via come se fosse una patacca. "Perché ridete?" disse il suo cavaliere porgendole il braccio.
"Pensavo che l'Ottocento non è poi malaccio. A proposito, mi chiamo Emma.”
“Sì, lo sapevo.” Era strano, per la prima volta dal loro incontro il suo cavaliere la guardò come se la conoscesse da tempo.

sabato 9 giugno 2007

Cinema de li mortacci tua contro cinema cinema

Visti due film. Uno vomitevole e uno trascinante. Quello (dal mio punto di vista) vomitevole è Tutti gli uomini del re con Sean Penn. Quello (dal mio punto di vista) piacevole è Apocalypto di Mel Gibson.
Di Sean Penn ho parlato varie volte in questo blog. Non ho mai trovato un film di questo attore che mi sia piaciuto. Mai uno. Assolutamente non vedrò mai più per mia scelta un film con questo scomposto e retorico interprete (il dvd in questione l’ho visto perché me l’ha portato mio fratello, come pure l’altro… e io ho una regola, se ho un film in mano lo vedo, che mi piaccia o no). Sean Penn è un attore che non conosce il significato della parola misura. Ignora il sotto le righe, il basso profilo, la moderazione. Interpreta sempre storie metropolitane, con personaggi corrotti, deboli moralmente, ubriaconi, dove non c’è un personaggio positivo o meglio buono, uno solo perdio, (anche con tutti i difetti e le debolezze che deve avere il personaggio buono moderno). Se Sean Penn interpreta un corrotto, più o meno ha fatto un patto con Satana, se beve è il campione mondiale degli ubriaconi, se sniffa sniffa pure le ceneri del padre come Keith Richards degli Stones, se è un pedofilo si fotte pure i cuccioli di cane. Nel film di ieri faceva un governatore della Louisiana tra il corrotto e l’idealista, e ovviamente sbracava sia quando era corrotto che quando era idealista. E baaaastaaaaa!!!!! Anvedi de pedalà lontano dar Capitano, Sean Penn!

Apocalypto mi è piaciuto. Una bella storia semplice. Avevo letto che c’era molta violenza, ma mi è parso che le scene forti fossero entro i limiti cinematografici moderni, di certo ben al di sotto del più scioccante La passione di Cristo (su cui ho scritto un commento nel post di "Jesus Christ Superstar). Gibson è stato attaccato dalla critica ufficiale, così come veniva attaccato Clint Eastwood quando era giovane. Probabilmente anche Gibson da vecchio sarà acclamato come lo è attualmente il vecchio regista Clint Eastwood. Ho visto tutti e quattro film di Mel Gibson regista. L’uomo senza volto, una storia minimalista di amicizia tra un professore dal volto sfigurato e un ragazzino. Braveheart – Cuore impavido, i patrioti scozzesi contro gli imperialisti inglesi (due film che mi sono piaciuti molto). La passione di Cristo, film davvero troppo violento e con una tesi troppo monolitica e dogmatica, ma che comunque ti fa riflettere. E infine questo suo ultimo lavoro.
Gliene hanno dette di tutti i colori a Gibson su Apocalypto, ma credo che la maggior parte delle critiche siano preconcette. E’ più o meno un Balla coi lupi senza i bianchi, se non in una breve scena finale. Ci sono i buoni e i cattivi molto ben delineati, come è nello stile di Gibson. Il buono è un nativo americano rapito dai Maya per essere sacrificato al dio Sole. Sono raccontate le sue traversie da prigioniero e anche la sua fuga per liberare la moglie che aspetta prigioniera in un pozzo nella giungla. I cattivi non sono i soliti bianchi, ma altri nativi americani nelle persone dei Maya. Ci sono delle evidenti esagerazioni, una tra le tante è il momento in cui la moglie del protagonista partorisce mentre ha l’acqua alla gola (la pioggia ha allagato il pozzo in cui lei è prigioniera con un altro figlio più grande). Tuttavia ci sono fughe nella jungla, Oriazi (un solo Orazio, anzi) disarmati contro schiere di malvagi Curiazi che ti vogliono massacrare. Salti dalle cascate, trappole, cerbottane avvelenate, lotte per sopravvivere. E anche, nella prima parte del film, personaggi tribali ben definiti psicologicamente, senza facile buonismo, con qualche tratto che faceva riandare la mente a scene di Un uomo chiamato cavallo (c’è una vecchia indigena che tormenta un guerriero grande e grosso perché non riesce a mettere incinta la figlia). Il finale? Si salvano tutti (tutta la famiglia, mentre il resto della tribù è stato massacrato senza pietà in tempi diversi). Quando ho finito di vedere questo film, mi sono detto soddisfatto: vaffanculo a Sean Penn e alle nebbie metropolitane, largo al cinema cinema!

lunedì 4 giugno 2007

Il mio papà era quasi un grand'uomo


Ho letto un post sul padre di una blogger che tra l’altro stimo molto e trovo simpatica e intelligente. Il padre di questa signora è stato una persona importante, ha frequentato intellettuali e perfino presidenti della Repubblica. Ha avuto importanti riconoscimenti culturali, sempre pienamente meritati per la sua opera e la sua creatività, ha ispirato tesi di laurea. Per contrappasso mi è venuto da pensare al mio papà. Mi sono sentito quasi come nel monologo del signor Gi di Giorgio Gaber. (“Ah, Il mio papà è molto importante. / Il mio papà no. / Il mio papà è forte, sano e intelligente. / Il mio papà è debole, malaticcio e un po’ scemo. / Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue. / Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto, ma poco perché tartaglia.”)
Il mio papà ha fatto la quarta o la quinta elementare, non si è mai capito e a questo punto credo che non lo si capirà mai, e ha fatto tanta di quella fame che probabilmente il periodo più bello della sua vita dovette essere quando, nell'ultima guerra mondiale, fu imbarcato giovanissimo su un cacciatorpediniere in qualità di sottocuoco. Quello fu forse il solo momento della sua giovinezza in cui poté mangiare come si deve. Il mio papà era rozzo, ignorante, qualche volta violento e negli ultimi anni della sua vita beveva troppo. Non ne ho un buon ricordo, non sono mai voluto andare sulla sua tomba.

Ma magari se il mio papà avesse potuto mangiare un po' di più quando era ragazzo su una desolata montagna napoletana (raccontava spesso che aveva un pezzetto di formaggio ottenuto chissà come, ma che non lo mangiava perché non avrebbe potuto procurarsene un altro, se lo metteva su una spalla e lo annusava prima di addentare il pane, diceva che in quel modo il pane era molto più saporito)… Se avesse potuto andare a scuola, se avesse potuto leggere qualche buon libro, se fosse vissuto lontano da padri padroni e da gente che pareva uscita dal libro Cristo si è fermato a Eboli. Se avesse avuto a che fare con persone con una parvenza di sensibilità umana (uno zio di mio padre accecava i canarini perché diceva che così cantavano meglio, e la cosa davvero impressionante non era questa, quanto il fatto che in un certo paesino di montagna tutti sembravano considerare lecita quella pratica, non ci trovavano nulla di anormale o di disumano). Se avesse potuto scrivere poesie invece che abbrutirsi nel cercare un tozzo di pane su sentieri con pendenze da cima Coppi. Se non l’avesse annientato la miseria più nera (una sorella di mio padre era ridotta così a mal partito che nel dopoguerra comprò un biglietto di sola andata per l’America, si sobbarcò un viaggio in nave di diverse settimane in mezzo a sconosciuti, lei che non si era mai allontanata da casa, e… andò a sposare una persona vista solo in fotografia, come nel film con Alberto Sordi e Claudia Cardinale, vivendo in un mondo di alieni di cui non capiva la lingua e soprattutto le abitudini di vita).

Se il mio papà avesse potuto andare al liceo e magari pure all’università. Se avesse potuto giocare di più a pallone, lui che era un ottimo mediano. Se avesse potuto pensare che i ricchi non erano i Signori, cioè una specie umana superiore e raffinata a cui lui non era degno di paragonarsi (sino alla fine degli anni Settanta faceva sempre precedere l’appellativo “signor”, pronunciato con reverenza, quando parlava dei suoi datori di lavoro anche in privato, diceva Signor con la maiuscola e soprattutto non usava l'articolo, diceva "ho visto Signor Questo" oppure "Signor Quello mi ha detto"). Se un giorno non fosse stato investito da una macchina avendo amputato l’alluce. Se non avesse considerato una fortuna quell’incidente dato che gli procurò circa duecentomila lire dell’epoca, cioè quanto bastava per sistemare meglio le cose per la sua numerosa famiglia. Se non avesse avuto un fratello che si faceva dare del “voi” dalla moglie e dai figli... se, se, se, se-se-se-se-se.
Insomma, se il mio papà fosse vissuto in un posto un po’ diverso e avesse fatto esperienze un po’ differenti… forse anche lui sarebbe diventato un grand’uomo. Forse sarebbe diventato un intellettuale, un grande giocatore di pallone, qualcuno su cui scrivere articoli o magari libri, e forse io ne avrei avuto un ricordo migliore.