lunedì 23 dicembre 2013

L’immensità

61417_383892365035217_723716724_n1. La lotta

Il primo uomo aveva le mani serrate alla gola del suo avversario e cercava di strangolarlo con tutte le sue forze. Anche il secondo uomo teneva le mani strette alla gola dell'altro. Ma dopo un po' decise che una politica migliore per accoppare il suo antagonista fosse di afferrarlo per i capelli e sbattergli la testa contro una superficie dura lì vicino. Poiché una mano era sufficiente per l'azione, ritenne di usufruire dell'altra posizionando le dita ad artigli con cui cavare gli occhi che lo fissavano con odio. Il primo uomo aveva una discreta presa sulla gola, e premeva i pollici nella tenera carne del collo. Si impegnava con tutte le sue forze per spaccare la trachea, come mostravano il suo respiro a mantice e il filo di bava, di certo bava da sforzo sovrumano, che gli tracimava dall'angolo della bocca color del marmo congelato. Tuttavia i suoi sforzi di strozzare l'avversario erano ostacolati dalla concitazione della lotta, che portava i due corpi a rotolare su un pavimento duro e freddo e a cozzare in ogni sorta di spigoli e ostacoli che ti toglievano la concentrazione per fare quando andava fatto.

Il secondo uomo aveva ormai raggiunto uno dei bulbi oculari con un dito ossuto e appuntito e si adoperava alacremente per estrarre la sfera visiva dalla cavità che la ospitava. Nonostante la foga dello scontro e l'adrenalina a fiotti che lo rendeva insensibile quasi a ogni cosa, il primo uomo sentì uno spasmo che dal foro occipitale giocava a flipper nelle fiamme del cervello. Ritenne che il miglior modo per tenersi l'occhio e togliersi di impaccio fosse di allungare una testata all'avversario e quindi di azzannarlo a una guancia con una ferocia superiore a quella di un leone che sgozza un’antilope nella savana. Le zanne che sentiva di avere per denti affondarono nella carne molle e per un attimo sconvolgente il primo uomo assaporò il denso e caldo sangue in gola. Poi cercò di scrollare la testa per staccare il brano di carne catturato dalle fauci riarse. Ma un ulteriore sommovimento dei corpi avvinti gli fece perdere la presa e rotolare sulla superficie dura su cui era steso per uccidere ed evitare di essere ucciso.

La sortita del morso era stata utile per non farsi accecare, ma gli aveva fatto perdere la coordinazione necessaria per spingere i pollici nella trachea. Aveva dovuto abbandonare la presa per qualche istante. E ciò aveva dato al suo antagonista il tempo di prendere alcuni respiri col fischio e di trovare energie sufficienti per appioppargli su un zigomo una gomitata che sembrava vibrata con una spranga di ferro. In ogni modo i corpi presto smisero di ruzzolare sul pavimento sconnesso e talvolta acuminato e ripresero la posizione che li contraddistingueva poco prima, come se fossero impegnati in una figura di ballo moderno particolarmente espressiva.

Con un singulto automatico e senza dubbio involontario, il primo uomo inghiottì un grumo di materia composto in parti uguali dalla sua bava da sforzo, dal sangue colato dal morso e da qualcosa di denso che poteva essere con identiche possibilità un grumo di muco nervoso o un brandello di guancia appartenuto al suo avversario. Non sentì nessun sapore, come non sentiva nessun dolore. Un po’ era pazzo e un po’ impaurito, ma forse la paura era superiore alla pazzia. Per un po' gli unici suoni udibili furono il tonfo della testa del primo uomo che picchiava su qualcosa di duro ma per fortuna non appuntito, ed echi di sibili come prodotti da serpenti pronti all'attacco. Nell'aria c'era qualcos'altro. Uno stridore metallico con una vaga eco di acciottolio di sassi sferzati da un mare alieno, la cui natura era difficile da spiegare, ma che il primo uomo fece risalire a quattro file di denti che sfregavano tra loro per sfogare la tensione cui erano sottoposti i corpi di appartenenza. Il primo uomo percepiva il sangue che gli martellava nelle tempie a un ritmo che danzava tra la discomusic e la psichedelica, ed era certo che pure l'individuo che cercava di ammazzarlo ascoltava un suono simile.

La luce era poca, ma abbastanza per distinguere occhi iniettati di odio che si fronteggiavano a poca distanza. Il primo uomo, con le mani ancorate al collo nemico, fece un grugnito che forse significava: "Muori!". Il secondo uomo, infilzando artigli in un angolo d'occhio e tentando di scavarsi una nicchia in quella sede, mandò un mugugno che suonava come un "Muori", prolungandolo con un secondo mugugno che avrebbe potuto significare "figlio di puttana" o qualsiasi altra cosa o anche niente. Il primo uomo avrebbe voluto aggredire il suo avversario ancora di più, ma tutti i suoi mezzi di offesa fisica erano in atto e l'unico modo per ledere ulteriormente il suo avversario gli sembrò fargli scivolare sul volto un filo appiccicoso e probabilmente corrosivo di bava. Non aveva la forza di sputare e quindi si era dovuto affidare alla forza dei gravità per attuare il proposito. Certo non si illudeva di ammazzare il suo nemico mortale a colpi di sputo. Anche se lo sputo avrebbe potuto almeno sostituire il "figlio di puttana" o un'offesa analoga che la sua gola esausta non era stata in grado di pronunciare per pareggiare il conto degli insulti.

Con la visione laterale di un occhio, capì di trovarsi in un ambiente ampio e scuro. Un locale vasto e poco illuminato. Come un magazzino o un capannone industriale in disuso. Coglieva cioè intuiva segni di disfacimento intorno a sé. Grandi finestre rotte, travi arrugginite in alto, mobili sfondati e scaffali metallici contorti ammonticchiati in angoli bui. Dalle travi proveniva un frullio come di uccelli che svolazzassero sul soffitto. La lotta doveva svolgersi in un luogo isolato o qualcuno avrebbe cercato di dividerli o almeno avrebbe manifestato a voce avversione o apprezzamento per quanto avveniva. La luce era così poca che doveva essere notte. O forse la scarsa illuminazione era frutto soltanto del tentativo di accecarlo. Sentiva gli occhi galleggiare in un liquido vischioso che sospettava essere qualcosa di peggio delle lacrime o del sudore che pure doveva inzuppargli varie parti di corpo.

2. I moventi.

Il primo uomo tentò di piazzare un calcio all'inguine dell'avversario mentre rotolava sul pavimento del capannone o di qualunque altra cosa fosse. La vicinanza dei corpi rese inefficace il colpo; non così poté dirsi della vigorosa testata che gli affibbiò il secondo uomo, che lo indusse a mollare la presa al collo e ansimare supino su una superficie gelida. Decise di prendersi una pausa. Solo qualche secondo per riacciuffare le forze e poi cercare di fare la cosa imperativa, ammazzare il figlio di puttana vicino a lui. Era una situazione pericolosa tirare il fiato accanto a un nemico mortale che vuole ucciderti almeno con la tua stessa determinazione: ma per fortuna il corpo confinante con il suo tirava il fiato allo stesso modo. Anche le occhiate di puro odio che gli lanciava da meno di un metro di distanza, coricato quasi comicamente su un fianco con un braccio sotto la testa come se dormisse, non lasciavano dubbi su ciò che avrebbe fatto appena riprese le energie.

Il primo uomo si accorse di non avere la più pallida idea del perché lui e l'avversario desiderassero uccidersi con tanta fermezza selvaggia. Era troppo stanco per ricordare. Guardò le spoglie stremate dell'altro uomo per avere lumi. Percepì poco attraverso la vista velata di sangue o di quello che era, ma notò che il suo avversario esponeva un robusto braccio peloso e un ghigno bestiale da scagnozzo di bassa lega, anche se era difficile valutare le espressioni altrui nella spossatezza attuale. Al lobo dell'orecchio dell'altro corpo brillava qualcosa, forse un piercing. E questo dettaglio, sembrò al primo uomo, si armonizzava a meraviglia con la teoria del brutto ceffo. Forse il suo avversario l'aveva aggredito per rapinarlo e la sua pronta reazione li aveva costretti all'attuale lotta senza quartiere. Però, per quanto ne sapeva il primo uomo, forse anche lui aveva un ghigno da brutto ceffo, magari perfino peggiore di quell'altro. E forse era stato lui ad aggredire per rapinare: la voglia pazza di uccidere che percepiva ancora mentre era riverso a recuperare forze la diceva lunga su quale doveva essere la sua normale indole. Eppure era difficile che una semplice rapina subìta o attuata potesse portare a uno scontro così brutale. Forse voleva ammazzare l'altro perché gli aveva fregato la moglie, lo aveva imbrogliato in affari o semplicemente perché lo avevano pagato per farlo. Forse più che un ghigno da brutto ceffo l'altro aveva semplicemente una faccia a cazzo che lo aveva indisposto dopo che si era sparato una dose di cocaina o di qualsiasi altra sostanza eccitante. O forse la faccia a cazzo che ti fa venire gli istinti omicidi l'aveva lui. Inutile. Non aveva idea dei moventi che spingevano lui e altro a farsi la guerra. Li avrebbe ricordati quando lo avrebbe ucciso o li avrebbe ricordati il suo antagonista quando avrebbe ammazzato lui.

Ma era già tempo di riprendere a scannarsi. Il primo uomo fu lesto. Ancora steso a terra, scagliò un calcio verso l'individuo che tentava di rialzarsi per riprendere l'iniziativa da una posizione di vantaggio. La punta della pesante scarpa che sentiva di calzare centrò un punto indefinito tra tempia e mascella, provocando uno scricchiolio di ossa rotte che risuonò come una sinfonia mirabile almeno presso metà delle orecchie in ascolto. Il primo uomo avrebbe sorriso, se avesse potuto. Il calcio a dire la verità era stato piuttosto fortunato e scagliato alla cieca, ma prometteva di essere l'elemento risolutore di quella lotta. Si alzò a sedere sul pavimento in preda all’euforia. Siccome il suo avversario non era stato così intelligente da cadere dopo la sua prodezza balistica, decise di facilitarne la capitolazione con una sberla a metà tra un pugno e una manata. Ecco, ora le cose andavano a posto. L'altro corpo era crollato nella sporcizia del capannone provocando squittii e trapestii animali in punti imprecisati, ma non troppo lontani. Il primo uomo decise che era l'occasione per chiudere i conti per sempre. Tanto più che il caso lo favoriva per l'ennesima volta. Percepì più che vedere un oggetto appuntito che scoprì essere, impugnatolo, un pezzo di vetro affilato dalla forma di pugnale curvo. Il pezzo di vetro gli lacerò pelle e tessuti quando lo afferrò nel palmo; ma la sua ferita fu niente in confronto a quella che ricevette il suo antagonista quando gli ficcò la lama improvvisata nella carne indifesa. In un primo tempo pensò di aver trafitto il cuore o almeno di aver squarciato un polmone, ma si accorse che il pezzo di vetro aveva centrato una spalla. Si era conficcato così in profondità nella polpa e nelle cartilagini che non riuscì a estrarlo per reiterare l'attacco presso un bersaglio più ghiotto. Poco male. I colpi messi a segno di recente avevano fiaccato il suo contendente lasciandolo esposto alla sua furia omicida.

Ormai aveva preso il sopravvento ed era certo che nulla avrebbe capovolto l'esito dello scontro. Si mise a cavalcioni della sua vittima sapendo di avere sul viso un ghigno di vittoria. Si reimpossessò del collo, spingendo in fretta le dita più in profondità di quanto avesse fatto in precedenza. L'altro era spacciato. Non mandava più occhiate assassine, ma sguardi di preda scannata. Era troppo scafato per chiedere pietà e aspettarsi di riceverne. La sua situazione non era ancora senza uscita, ma ogni secondo peggiorava. Già il tipo non riusciva più ad afferrarlo per i capelli per sbatterlo da qualche parte. Le dita di acciaio che si atteggiavano ad artigli mortali ormai si limitavano a patetiche carezze sul viso che poco avanti avrebbero voluto accecare. Le gambe sbattevano dove capitava, il corpo dolorante si contorceva in spasmi di agonia. A un tratto il primo uomo ebbe voglia di ridere. Il suo antagonista smise di agitarsi e sbarrò gli occhi come se fosse ormai una salma esposta alle pompe funebri visitata da gente ammantata di nero. Eh no, esultò lui, stai solo fingendo. È la tua ultima carta da giocare: fai la parte del morto e poi cerchi di sorprendermi se sono così fesso da allentare la presa. Ma non farò niente del genere. Continuerò a stringere questa cazzo di gola di questa faccia da cazzo finché non schiatti. E se ora fai il morto per abbindolare i gonzi, presto sarai davvero un cadavere più spettacolare di quelli del cinema.

3. L'immensità.

Proprio allora gli venne un pensiero assurdo che non seppe spiegarsi. Quella lotta non era importante. Era un evento del tutto marginale, non contava un cazzo. Riguardava soltanto due individui insignificanti, che per l'universo avevano più o meno la stessa importanza di due atomi intenti ad annichilirsi in un angolo remoto del creato. Che importanza poteva avere il fatto che uno dei due atomi prevalesse sull'altro? Che lo incorporasse nella sua struttura cancellandone l'identità chimica? Nessuna. Quale rilevanza poteva avere la morte sua o del suo avversario sulla vastità del tutto, sul corso della vita in questa o in altre remote regioni dello spazio, o soltanto sul moto di questo piccolo pianeta nella periferia della galassia? Nessuna. I due lottatori erano solo individui ridicoli. Formiche. Anzi meno di formiche attaccate alla loro irrilevante esistenza. Tutto nell'universo o nel pianeta sarebbe rimasto lo stesso, che una di queste ridicole formiche sparisse o no. O che lo facessero entrambe. Muori tu o muoio io, che differenza avrebbe fatto? Il primo uomo ebbe una visione dell'infinità del cosmo. Vaga, sbiadita, ma tale da non lasciare equivoci. Vide le stelle a miliardi di miliardi, pianeti e asteroidi dalle orbite fortemente ellittiche, gli ammassi di galassie, lo spazio infinito e vuoto percorso da rari protoni. E decise che la presente lotta aveva sul Tutto un importanza pari a zero. Uno zero assoluto.

In quel momento si accorse con una certa sorpresa che le sue stime sulla sorte dello scontro erano state un po' troppo affrettate e ottimistiche. La sua presa era molto meno efficace e salda sul collo dell’avversario, il quale aveva smesso di fare il morto e cercava di scrollarsi dosso con energia sempre maggiore il corpo che lo cavalcava sulla pancia.

Il secondo uomo poi riuscì a staccarsi le mani dalla gola, probabilmente dimostrando una sorpresa simile a quella del suo contendente: anche se il primo uomo non poteva essere certo delle espressioni altrui perché vedeva poco e il poco che vedeva aveva poco senso. Anche i pugni da cui si sentì prendere di mira avevano poco senso. Come poteva, il quasi caro estinto, aver trovato forze sufficienti per mollargli quelle mazzate? Si vide accasciarsi di lato. E poco dopo notò che la situazione si era ribaltata. Ora era lui sotto e l'altro sopra. L'altro picchiava come un forsennato, forse per fargli pagare la scadente interpretazione del cadavere cui lo aveva obbligato poco prima. Lo colpiva con gioia. Il sorriso trionfale si era trasferito sul suo viso, qui non potevano esserci dubbi di sorta. Così come non potevano esserci dubbi, rifletté l'uomo riverso a terra, che adesso la gola preda di mani assassine era la sua.

Tra poco sarebbe stato lui a essere soffocato, anche riteneva che lui non si sarebbe abbassato a recitare parti di morto. Non c'erano motivi per farlo. Non c'erano motivi per cercare di volgere a suo favore lo scontro attuale. Ecco ancora le immagini dell'universo nella sua testa, ora nitide come non mai. Puntini sterminati di stelle, spazi senza fine. L'immensità. Ecco, ciò che vedeva in quei momenti era la pura e semplice immensità, quella che nessuna mente mortale poteva mai concepire. Quanto erano poco importanti loro due al cospetto della maestosa immensità che ormai afferrava con chiarezza estrema. Si chiese se erano state le presenti riflessioni a rovesciare le sorti di una lotta che pareva decisa. Ma a ben vedere nemmeno questo era importante.

"Muori", disse in quel momento il suo contendente e stavolta lo fece con parole chiare che non davano adito a dubbi interpretativi. Le dita affondarono nella trachea e il primo uomo sentì mancargli il respiro e gonfiarsi gli occhi come se volessero esplodere.

Eppure sorrise. Se non fuori, dentro di lui. Che stupido, è il mio avversario, pensò. Come può dare importanza a un evento tanto poco importante come la mia morte? O come la sua? Quello sciocco non aveva capito niente. Non aveva capito il suo posto nell'universo o nel tutto. Era uno patetico ignorante. Un essere mediocre da compatire. Quello stupido gli faceva pena. Perché sarebbe vissuto nella sua ignoranza ancora a lungo pensando di aver vinto qualcosa, quel giorno. Fu questo l'ultimo pensiero del primo uomo mentre moriva. Questo e l’immensità di cui sentiva di andare a far parte.

3 commenti:


  1. CASSANDRO

    Commentare un post come questo tuo è impresa ardua.

    Comunque complimenti per la “sceneggiatura” da “C’era una volta l’America”, e per la conclusione cosmica di grandissimo effetto, volta a ribadire alla fin fine l’aforisma “Ricordati, uomo, che nell’Universo altro non sei che un punto, anzi meno di un punto!”.

    Se permetti, Cap, allora commenterei questa tua intensa e millimetrata lotta nell’ “immensità” con questa, forse irriverente, richiesta . . . . .

    A DIO DELL’UNIVERSO

    Nessuno lo discute che i Cieli
    pieni siano, Dio, della Tua gloria,
    ma sulla Terra solo chi ha veli
    sugli occhi . . . o circonfuso è dalla boria

    per star coi piedi sopra gli altri . . . può
    veder questa pienezza. Ah, fosse vero
    non ci sarebbe il Terzo mondo, no,
    la violenza contro il diverso, il nero,

    le bombe intelligenti, la follia,
    la schiavitù della prostituzione,
    o malasanità e pedofilia!
    Un poco di più di considerazione,

    mio caro Dio, se puoi . . . e scusa se
    oso dir ciò . . . per questa Terra in basso.
    I Cieli stanno a posto, fa’ sì che
    sia gloria anche quaggiù. Siamo al collasso,

    chè qui per niente ci si ammazza. Qui
    l’homo homini lupus non è morto,
    ci si riduce in polvere ogni dì,
    e qualunque legno è legno storto.

    Se puoi cerca d’essere più accorto!

    E scusa se Ti ho dato anche del ‘Tu’,
    ma, credimi, non ne possiamo più!

    (Cassandro)

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  2. CASSANDRO

    Scusa, Cap, ma sono saltate le prime due quartine.

    A DIO DELL’UNIVERSO
    (I cieli e la terra sono
    pieni della tua gloria)

    “I cieli e la terra sono pieni
    della Tua gloria” si recita in chiesa . . .
    però se i due luoghi concateni
    oggi perplessità ha buona presa.

    Distolgono assai le litanie
    se non si guarda in faccia la realtà:
    non ci tranquillizziamo con bugie
    chè soffre molto questa società.

    Nessuno lo discute . . . . . .




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  3. Cassandro, le cose non vanno, ma si vede che così devono andare e non credo che basti un appello al Cielo per farle migliorare. Devo dire che avevo in mente di scrivere questo post da molto tempo. Vedevo due persone senza caratteri definiti che lottavano selvaggiamente. Non si sapevano i motivi della lotta, né come sarebbe andata a finire. Si capiva e si diceva che non era importante l'esito della lotta, ma era come se, nella prima idea, esprimesse, quell'idea il cosiddetto narratore onnisciente, cioè la figura narrante che in letteratura sa tutto e vede tutto, anche i tuoi pensieri. Poi ho cambiato idea e ho introdotto l'idea dell'immensità. Cioè uno dei due antagonisti, quello che poi morirà, a un certo punto si rende conto di quanto siano assurde quella lotta e, forse, la vita.

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